Una camminata sui carboni ardenti

Incontri Scacciare la paura del dolore fisico e spostare un limite che sembrava insormontabile: una giornata con Gérard Moccetti per osservare chi pratica la pirobazia
/ 18.06.2018
di Sara Rossi Guidicelli

U. lavora per l’ufficio delle imposte. Al telefono ha una voce dolce e gentile, me lo immagino in giacca e cravatta, un po’ pallido perché passa tanto tempo in ufficio, tutto casa e lavoro. Niente affatto. È alto e robusto, ha la camicia a quadri aperta sul petto anche quando fa freddo e nel tempo libero ama camminare sui carboni ardenti.

Appena me lo dice, decido di andare a vedere cosa succede durante questa sua pratica. Lui mi sorride e acconsente, ma a una condizione: «Devi partecipare anche tu. Non significa che devi per forza, ma prendere parte alla preparazione». Mormoro un mah-no-vedremo con un sorriso nervoso, chiedendomi in quale guaio mi sono cacciata. La mia immaginazione mi mostra Mangiafuoco che minaccia Pinocchio di buttarlo nelle fiamme insieme con Arlecchino. Però voglio sapere perché qualcuno invece oltrepassa per hobby la sana paura di farsi male. Cosa ne ricava? Qual è il piacere per il quale buttare all’aria il buonsenso che ti dice di non scottarti? Quindi prometto che andrò. È iniziata da poco la primavera quando Gérard Moccetti, organizzatore di camminate sulle braci ardenti, mi chiama: «Sabato camminiamo. Porta tre giornali vecchi, una coperta e un picnic. Siamo un gruppo di trenta persone, ti iscrivo come partecipante a tutti gli effetti». Ancora! Avverto subito che mi mescolerò al gruppo ma sarà difficile che alla fine mi toglierò le scarpe.

Tra le poche cose che conosco sulla pratica della pirobazia, ovvero l’arte di camminare sui carboni ardenti, ci sono ovviamente riferimenti ai fachiri d’Oriente, ma anche i riti del fuoco sparsi per tutta Europa, che si tenevano proprio in questo periodo dell’anno, quando torna la luce e ci si lascia alle spalle l’inverno. Sono riti legati al sole e alla sua potenza generatrice benefica per uomini, animali, grano e frutta, ma anche legati ai poteri di purificazione del fuoco, per bruciare i simboli dell’inverno e gli spiriti maligni. In moltissime culture d’Occidente si accendevano falò all’imbrunire, poi i ragazzi o tutti gli abitanti del villaggio saltavano sul fuoco, passeggiavano sui carboni, spargevano le ceneri. In Serbia e Bulgaria, scrive Frazer nel suo libro di etnografia Il ramo d’oro, facevano camminare sulle braci il bestiame malato, perché si pensava che potesse guarire.

Quando arrivo all’Alpe di Pazz, dove mi ha invitata Gérard, mi trovo inserita in un gruppo eterogeneo, tra gli 11 e i 69 anni: c’è una famiglia con due figli adolescenti e la nonna, c’è un gruppo di educatori che vogliono fare l’esperienza prima di portare i loro ragazzi del foyer, c’è uno studente di diritto, un ingegnere che ha avuto un ruolo di primo piano nella costruzione di Alptransit, alcune felici coppie di innamorati e un filosofo «a cui tutto è andato male nella vita», come mi racconta lui stesso. Gérard si presenta come padre di tre figli, ex banchiere, guida da 33 anni di camminate sui carboni ardenti e schegge di vetro; lavora con bambini, aziende e gruppi come quello di oggi. È simpatico, non ha niente del santone, somiglia di più all’amico motivatore che tutti vorrebbero nei momenti in cui ti manca la voglia o il coraggio per buttarti in qualche impresa. Nel 1978 Gérard era sull’isola di Bali e ha assistito a uno spettacolo in cui il danzatore andava in trance e passava indenne sui tizzoni incandescenti; quando ha saputo che si poteva farlo anche da lucidi e che chiunque poteva appropriarsi di questa abilità, ha seguito una formazione e da allora è un fachiro entusiasta e infaticabile.

C’è un aspetto che accomuna tutte quelle persone così diverse e che per la maggior parte non si conoscono: sembrano avere una gran voglia di gentilezza e mostrano vocazione verso il contatto umano. Si comincia con qualche esercizio per creare gruppo, per avere fiducia gli uni negli altri e in se stessi. Dopo poco tempo voglio bene a persone che non conosco e a cui continuo a chiedere: perché siete qui?

La metà mi risponde: perché è bellissimo camminare sui carboni ardenti. Lo avete già fatto? «Sì, certo. Ti fa sentire bene: è una prova con te stesso; se riesci a superare le tue paure ti convinci che avrai la forza anche per i tuoi progetti personali».

L’altra metà dice di essere lì per curiosità, oppure perché vuole conoscere qualche parte di se stesso che ancora non sa; qualcuno ha un obiettivo che spera di raggiungere anche grazie a questa esperienza, un altro è per riavvicinarsi al senso del sacro, oppure c’è chi dice che sente una voglia ancestrale di andare al di là dei limiti umani; qualcun altro ancora desidera solo passare una giornata speciale e gli hanno consigliato le camminate di Gérard.

Tra gli educatori con cui parlo due hanno già provato con un gruppo di giovani utenti, che vivevano un momento di difficoltà. «Per loro è ancora più speciale», mi racconta una dei due. «Lavoro a volte con ragazzi che raramente si sono sentiti dire “bravo” da qualcuno. Intraprendono relazioni, formazioni, progetti che vanno a gambe all’aria e per una volta in una giornata sperimentano il “miracolo” di fare qualcosa che si erano prefissati e lo portano a termine, fino in fondo. E non si tratta di una cosa qualsiasi, ma di qualcosa che a tutti sembra impossibile!».

Gli esercizi sono divertenti, nelle prime ore si ride molto, ci si conosce senza parole, con molti abbracci e prove di fiducia, di concentrazione, di coraggio. Poi si comincia a sperimentare cosa significa vincere una paura: spezza una matita con un dito; potresti farti male, ma se lo fai giusto e deciso, non ti succede niente. Metti tra te e il tuo compagno una freccia, gli estremi appoggiati sulla gola, in quel punto dove anche una leggera pressione dà già fastidio. Buttati nelle braccia dell’altro senza esitare e la freccia si spezzerà.

Tra quelli che provano, una sola all’ultimo millisecondo si ritrae e si ferisce leggermente. Gli altri dicono che è un’esperienza elettrizzante, che lo sguardo che ti dai prima di lanciarti nell’abbraccio che spezza la freccia è così intenso che ti dà la carica per vivere altri cento anni. Hai paura ma ti butti e alla fine non ti succede niente: ti accorgi che a volte ci imponiamo dei limiti sbagliati. Forse allora sei spinto a pensarci meglio la prossima volta che ti vien da dire: non posso farcela, fa male, non ho il coraggio.

Arriva la sera, si accende il fuoco. Ci si prende un momento per ragionare sulla propria vita, quella già trascorsa, quella ancora da venire. Ci si massaggia la schiena e i piedi, a due a due. Si mastica in silenzio un piccolo spuntino. Ognuno medita per conto suo. Poi tutti si tolgono le scarpe, le calze, io compresa. Camminiamo sulle braci; sono calde e la sensazione di calore durerà fino a tarda notte, ma non fa male. C’è chi si dà la mano, chi porta in braccio la moglie, chi lo fa più volte. U. mi dice: «Sono contento che sei andata di là».

Dicono che la brace, anche se è sui seicento gradi, conduce male il calore, quindi se si cammina abbastanza velocemente il piede non fa in tempo a scaldarsi così tanto da ustionarsi; altri dicono che senza la preparazione non c’è la concentrazione giusta, l’umiltà, la forza del gruppo che ti aiutano a non fare errori e quindi a non bruciarti.

Poco importa. Importa che alla fine tutti abbiamo condiviso un pasto, allegro e spensierato, come tra compagni di scuola, in quell’epoca in cui l’amicizia rappresentava tutto ciò che conta, quando incarnava i tuoi valori, era il tuo presente e il tuo futuro, era il luogo, la casa, dove ti sentivi bene così com’eri.