Gravidanza, parto, allattamento, e più in generale l’esperienza della maternità, sono temi ancora difficili da affrontare in maniera critica. Non è semplice trovare testimonianze pubbliche realistiche e sincere, che includano oltre alla gioia e alla soddisfazione, le fatiche, il malessere, i sentimenti ambivalenti che questi aspetti della vita possono comportare perché ci sono pregiudizi che impediscono alle donne di parlare liberamente e di essere ascoltate.
Qualcosa però sta cambiando: dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna arrivano voci che trovano spazio su giornali, blog e libri e che scardinano tabù radicati; un vero e proprio filone di racconti che sembra solo all’inizio. Viene contestata, ad esempio, la rappresentazione della gravidanza, non per tutte idilliaca, a causa delle nausee che possono essere non solo mattutine e dei disturbi di stomaco (per alcune pesanti) che si protraggono anche oltre i canonici tre mesi. Un articolo sulla rivista americana «Bust» spiega che rispetto al vomito continuo mancano dati certi e non esistono cure efficaci perché fino ad ora non sono stati fatti molti studi. Se ne discute soltanto quando capita a personaggi famosi: Amy Schumer, scrittrice e attrice, di recente ha postato su Instagram una sua foto con la flebo. «Sono più malata nel secondo trimestre rispetto al primo. Ho l’iperemesi e mi devasta», ha commentato. Marlena Fejzo, ricercatrice associata alla David Geffen School di Medicina dell’Università della California di Los Angeles (UCLA) sta studiando due geni che potrebbero essere la causa delle nausee e dei rigetti debilitanti. Non si tratterebbe, stando alle sue ricerche, di un problema legato agli ormoni, con l’unica soluzione di sopportare in silenzio perché non c’è rimedio, e soprattutto «non è tutto nella testa delle donne e basta». C’è chi non riesce a considerare la gestazione «il periodo più bello della vita», per usare uno slogan diffuso: come viene ripetuto dal «Washington Post» a «Quartz», si può essere assalite da scontentezza, più o meno intensa. Per l’American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG) e l’American Psychiatric Association (APA), tra 14 e il 23 per cento delle donne ha esperienza di sintomi di depressione durante la gravidanza e non tutte hanno una storia clinica alle spalle.
Sul «Guardian» l’editorialista Su-zanne Moore ha scritto di recente del fenomeno diffuso ma ancora sottaciuto della violenza ostetrica, termine che include abusi, mancanza di rispetto e altri eventi traumatici nelle sale parto, sostenendo che sarebbe ora di un movimento di denuncia internazionale sul modello del Metoo. Riportando la sua esperienza e quella di altre puerpere, fa anche riferimento alle difficoltà dell’allattamento al seno. «A Londra, in ospedale, sono stata sgridata perché la mia neonata piangeva. Dopo che tutto il giorno una volontaria della Lega del latte ha cercato di farmi attaccare al seno la piccola, alle due di notte un’infermiera stanca per il troppo lavoro mi ha urlato che ero incapace di produrre latte e che avrei dovuto ficcare nella bocca di mia figlia il biberon perché stavamo svegliando tutti».
Nel libro Push Back, Guilt in the Age of Natural Parenting, Amy Tuteur, ostetrica e ginecologa con formazione ad Harvard e alla Boston University School of Medicine, che da una decina d’anni cura un blog con ampio seguito dedicato ai falsi miti della «naturalità», spiega che sull’allattamento al seno c’è una pressione sociale e medica, nonostante sia qualcosa che può rivelarsi faticoso. Lo dicono i dati (relativi agli Usa): inizia il 75 per cento delle donne in ospedale e va avanti meno del 38 per cento fino ai tre mesi e solo il 16 per cento in maniera esclusiva a sei mesi. Tuteur, che ha avuto quattro figli, tutti attaccati al seno, scrive: «Iniziare è spesso doloroso, frustrante e certe volte gravoso. E continuare è difficile e non sempre pratico, soprattutto per le madri che lavorano. Non è qualcosa di perfetto, esattamente come la gravidanza». Senza contare che ci sono donne che non producono abbastanza latte, e per questo vengono colpevolizzate.
«Andrebbe considerato che rispetto all’allattamento ci sono delle mode» spiega ad “Azione” Patrizia Romito, professoressa di Psicologia sociale all’Università di Trieste, che ha insegnato in Svizzera, Francia, Québec e Stati Uniti e ha scritto diversi libri su violenza di genere, minori e maternità. «Negli anni Cinquanta e Sessanta veniva reso impossibile allattare al seno e si usava il biberon e il latte artificiale. Gli esperti cambiano idea periodicamente. L’allattamento al seno è sicuramente prezioso per la salute del bambino, ma viene spesso fatto passare il messaggio che deve essere per forza anche un piacere per le donne, mentre non è sempre così. Se si dicesse la verità, e cioè “signora faccia uno sforzo, almeno per qualche tempo, e tenga duro”, ci troveremmo di fronte a un atteggiamento più onesto e costruttivo». Secondo Romito a pesare sull’esperienza della maternità ci sono ancora condizionamenti sociali e culturali che cercano di mascherare la realtà: nella pratica mettere al mondo un figlio è un passaggio che cambia la vita delle donne che si ritrovano in gran parte dei casi sole ad affrontare responsabilità che possono diventare insostenibili e magari a dovere sacrificare il lavoro e la carriera.
A questo proposito Jessica Valenti, scrittrice bestseller e opinionista statunitense, sostiene che non sono i bambini a danneggiare la carriera delle donne, ma i compagni e i mariti che si sottraggono alle loro responsabilità. Infatti, il lead parent, il genitore guida, è considerato ancora da tutti la mamma. Natasha Pearlman sull’«Observer» si chiede perché ci sia tutta questa insistenza sull’idea di conciliazione femminile quando la parola chiave dovrebbe essere condivisione. Sempre più donne, secondo Pearlman, faticano a ricalcare il ruolo previsto e non sopportano il fatto che la società non preveda che i padri debbano bilanciare lavoro e cura dei figli: «Perché nessuno ha mai chiesto a mio marito: come riesci a gestire la grande pressione al lavoro con un bimbo piccolo?».