Succede a tutti di sentirsi in imbarazzo per avere fatto un commento fuori luogo oppure per una battuta che si pensa divertente ma che non fa ridere chi ci sta ascoltando. Capita di provare un improvviso senso di disagio anche su internet se, ad esempio, si sta guardando il profilo Instagram o Facebook di qualcuno per «spiarlo» e inavvertitamente parte il like su un post che magari nemmeno ci piace. All’imbarazzo, emozione difficile da gestire, che può portare a vera e propria ansia sociale e ad attacchi di paranoia, ha dedicato un libro Melissa Dahl, giornalista scientifica americana che lavora nella sezione «The Cut» del «New York Magazine».
Che figura! (in uscita a gennaio 2019 per Feltrinelli) è il titolo del suo lavoro di ricerca durato due anni, nei quali ha passato in rassegna ricerche ed esperimenti di psicologia e si è messa in discussione in prima persona. Per uscire dalla sua comfort zone, si è autoassegnata il compito di provare a sperimentare ciò che viene suggerito da uno studio realizzato da Nicholas Epley, professore di Scienze comportamentali all’Università di Chicago, e cioè che se la mattina, mentre si va al lavoro, si parla agli estranei sui mezzi pubblici, ci si sente più felici. Dahl lo ha fatto per una settimana sulla metro di New York, forzandosi di superare la sua resistenza per le figuracce. Non è stato semplice: certi giorni i suoi tentativi di socializzazione sono stati malamente frenati sul nascere da chi ha finto di non sentirla mentre cercava di attaccare bottone con una scusa qualsiasi. Qualcuno, dopo avere risposto seccamente, ha tirato fuori una rivista per evitare la conversazione oppure ha smesso semplicemente di guardarla in faccia. Altri giorni, comunque, è andata meglio: è riuscita ad avviare vere e proprie conversazioni, con scambi di opinioni piacevoli a proposito di libri e canzoni.
Inizialmente il libro di Melissa Dahl sarebbe dovuto essere una guida per non sentirsi mai più in imbarazzo, ma alla fine si è rivelato un percorso per arrivare ad amare i momenti scomodi e fastidiosi, quelli in cui si vorrebbe sprofondare e scomparire per sempre dalla vista degli altri. Dahl ha capito che si può decidere di non precipitare nella sensazione di annichilimento; anzi, l’imbarazzo può fare sentire meno isolati e connessi alle altre persone. «Datti una tregua per la macchia di caffè sulla maglietta oppure per il commento fuori luogo al primo appuntamento. Ci sono meno persone di quante tu possa immaginare che si ricorderanno delle tue goffaggini» dice in una delle molte interviste rilasciate alla stampa statunitense, nei mesi scorsi. «Facciamo tutti continuamente figuracce, è davvero qualcosa di comune, soltanto che alcuni di noi sono più bravi a cavarsela e a costruirci delle storie sopra». La rivisitazione dei momenti di vergogna è una via per riuscire a sentirsi meglio, perché possiamo farli diventare aneddoti che, nelle nostre vite personali e professionali, ci rendono più umani. Condividere la vulnerabilità è uno dei modi per creare velocemente intimità con chi ci circonda.
Un altro stratagemma per riuscire a mantenere il distacco è pensare che siamo tutti condizionati dal cosiddetto «effetto spotlight», cioè dalla tendenza innata a sopravvalutare il grado di attenzione che gli altri rivolgono al nostro aspetto e al nostro comportamento. Ci sentiamo osservati e di conseguenza giudicati anche quando questo non sta realmente accadendo. Ovviamente questo non vuol dire che se arriviamo a una riunione di lavoro in ritardo oppure a una festa già cominciata passiamo inosservati, ma che le persone, pur guardandoci, non fanno così caso a noi. Una liberazione, considerando che fin da piccoli ci preoccupiamo dei giudizi esterni. Philippe Rochat, professore di Psicologia alla Emory University – nato e formatosi in Svizzera e allievo di Jean Piaget – in uno dei suoi ultimi studi ha scoperto che già dall’età di ventiquattro mesi, ancora prima di riuscire a dire una frase compiuta, i bambini non solo sono consapevoli che le persone attorno li possono valutare ma cambiano comportamento per avere risposte positive.
Può anche capitare di sentirci in imbarazzo per gli altri quando, ad esempio, uno dei nostri amici fa una gaffe senza accorgersene oppure quando guardiamo programmi televisivi dove vengono messe in ridicolo le performance dei partecipanti. C’è un nome per questa emozione, «imbarazzo di seconda mano»: mentre la proviamo, attiviamo le stesse aree del cervello legate all’empatia. Un’altra esperienza frequente è il ricordo che arriva all’improvviso per qualcosa che ci ha causato vergogna nel passato. Un vero e proprio «attacco» di vergogna, come lo definiscono gli psicologi, che ci fa rivivere le umiliazioni, spesso dopo anni. Se, quando capita, proviamo a concentrarci sui dettagli dell’episodio, ad esempio su come era fatta la stanza dove ci trovavamo oppure su chi era presente, possiamo rendere meno carica di emozioni la memoria.
Possiamo imparare a non farci trascinare dalla vergogna, ma ad abbracciarla, perché se la accettiamo con consapevolezza ci farà sentire più connessi al resto del mondo. Addirittura, la nostra avversione per l’imbarazzo potrebbe trattenerci dal progredire come società perché spesso, proprio per evitare situazioni di fastidiosa impasse, non ci lanciamo in conversazioni difficili, ad esempio sul razzismo, sulla religione, sul genere e sulla classe, che invece possono essere utili per uno scambio di idee.
La sfida è cercare di fare, ogni tanto, qualcosa che consideriamo fuori luogo, non per umiliarci ma per provare che possiamo sopravvivere. Melissa Dahl si è ritrovata anche a leggere il diario di quando era piccola davanti a degli estranei, per un programma statunitense chiamato The mortified podcast, in cui alcuni adulti condividono le cose più imbarazzanti che hanno scritto da bambini. Una sfida per ricordarsi che si può prendere tutto meno sul serio, con più autoironia, imparando a ridere di se stessi.