Da lungo tempo gli specialisti, nelle più diverse attività professionali o scientifiche, sono nell’occhio del ciclone, indicati come il segno perverso della modernità e della sua tendenza alla cosiddetta parcellizzazione del sapere. In questa critica si sono distinti vari pensatori, da Ortega Y Gasset a Geymonat, ai quali si è affiancata una opinione pubblica colta che ha finito per dipingere lo specialista come un uomo miope, dal sapere limitato ad un settore, incapace di cogliere la complessità della realtà nel suo insieme. Si è persino ricorsi alla metafora del paraocchi che lo specialista indosserebbe, come si fa per i cavalli, per non venire disturbato da osservazioni estranee al suo campo specifico.
Si tratta di una critica che, sotto il profilo sociologico, proviene da un mondo umanistico che si attarda sulla persuasione che la saggezza, la «vera» conoscenza e, in definitiva, la verità, non possano che essere generate da un atteggiamento speculativo di carattere generale quando non addirittura metafisico. Se a ciò si aggiunge che la specializzazione riguarda oggi non solo le professioni tradizionali ma anche il prorompente ambito della tecnologia e della scienza, è facile intuire come il mondo umanistico stia riversando sul fenomeno una sorta di malcelato risentimento. Una premessa che, da un lato, porta a negare implicitamente che anche la scienza e la tecnologia, e dunque non solo la poesia o la filosofia, costituiscano un lavoro di ordine intellettuale e, dall’altro, induce a ritenere, con una certa presunzione, che la complessità della realtà sia catturabile dalla speculazione mentre scienza e tecnologia, al contrario, non si stancano di sottolinearne l’estrema varietà e l’intima incertezza.
Il fatto è che le specializzazioni non sono altro che la risposta adattiva dell’umanità alla vastità e alla grande eterogeneità dei fatti in senso lato «fisici» del mondo in cui viviamo. Come ci insegna l’antropologia, un certo grado di specializzazione è sempre esistito in tutte le popolazioni e, fra l’altro, persino le religioni, come il paganesimo, il cristianesimo e l’induismo, conoscono una sorta di specializzazione delle divinità per cui esistono dei o santi per i viaggi in mare, per la fertilità, per la cucina e per tutta una serie di malattie.
Tuttavia è da due secoli che il fenomeno sociale dello specialismo sta allargandosi. È per questo che, sul piano sociologico, Durkheim ha coniato i termini «solidarietà meccanica» e «solidarietà organica». La prima è la forma di integrazione che, in una società pre-industriale, vede i suoi membri come individui che possiedono competenze generiche indistinte, mentre nella seconda emerge la «divisione del lavoro», e dunque la specializzazione. La società attuale, insomma, è tenuta assieme organicamente poiché ognuno ha competenze specifiche ma, per tutto il resto, ha bisogno delle competenze dell’altro. La scienza non si comporta diversamente. E lo fa perché prende atto che la realtà non è affatto un tutt’uno graziosamente disponibile alla mera riflessione filosofica ma è un insieme di dimensioni e livelli di enorme articolazione. Per affrontare una simile enormità di livelli va preso atto della nota parabola del grande fisico Heisenberg quando sottolinea l’inesorabile destino dell’alpinista il quale, salendo sempre più in alto, allarga il paesaggio che può osservare ma ne perde i dettagli, mentre, scendendo, scopre i dettagli ma perde la visione dell’insieme. Dunque si tratta di decidere: la conoscenza «vera» e più opportuna è quella dell’insieme o quella dei dettagli? La vita quotidiana dimostra che i «dettagli» in effetti non sono quasi mai aspetti secondari e che trascurarli può significare andare incontro al disastro.
La risposta non può quindi che essere la ricerca di un equilibrio grazie al quale i dettagli siano messi in relazione fra loro e le visioni d’insieme si lascino analizzare concretamente nelle loro componenti, come richiede la scienza sperimentale.
Si tenga però presente un’ulteriore proprietà del mondo fisico: l’insieme cui la scienza fa riferimento non è sempre e solo quello macroscopico, come l’Universo o la Terra. Chiunque abbia posto gli occhi sul mirino di un microscopio per osservare una goccia d’acqua di pozzanghera si sarà accorto che anche lì c’è un «universo ad alta eterogeneità e che, aumentando progressivamente l’ingrandimento, esso si apre nuovamente su ulteriori profondità cosicché nuove realtà complesse emergono continuamente. Il nostro sistema immunitario, per esempio, è un mondo, osservabile e non speculativo, la cui complessità è inavvicinabile senza dedicarvi l’intera vita di uno specialista come del resto non può che accadere ad un astrofisico nei confronti delle galassie.
È ovvio che lo specialismo, se assunto come paraocchi intenzionale o per scarsa intelligenza, può generare distorsioni, come sarebbe per un dermatologo che insistesse ad attribuire a disfunzioni epidermiche una malattia che, in effetti, sia dovuta a problemi cardiaci. Ma lo specialista intelligente sa quel che fa e sa reindirizzare ogni fattispecie verso la specializzazione più idonea. A questo scopo è strategica la formazione generale dello specialista, cosa che caratterizza particolarmente gli studi universitari europei rispetto a quelli americani o russi. Così come sono estremamente utili le funzioni di raccordo esercitate da studiosi di metodologia, di matematica e di statistica, veri e propri «ufficiali di collegamento» come sono stati definiti da un fisico. Ma anche costoro sono specialisti perché la divisione del lavoro è una condizione inevitabile se si desidera, come si dice correttamente, approfondire le cose.
Il rifiuto della specializzazione può comprensibilmente avere origine da esperienze individuali negative a causa, talvolta, dell’incapacità dello specialista di aprirsi verso la diversità delle competenze. Senza specialisti saremmo però condannati all’ignoranza, con tutte le sue conseguenze, così come, alle Olimpiadi, saremmo condannati alla noia e all’insoddisfazione se tutti gli atleti dovessero solo partecipare al decathlon.