Sempre più spesso, in ogni settore, si lavora in team: decisioni condivise, tempo trascorso assieme e, inevitabilmente, anche incomprensioni e problemi. Per la psicologa del lavoro Raffaella Delcò, troppo spesso il tema viene banalizzato: «un eventuale conflitto ha una grande incidenza sul benessere. È provato che lavorare in un ambiente degradato può portare a un livello di stress molto elevato e dunque anche a conseguenze serie, come abbassamento della prestazione, assenteismo, sviluppo di piccole malattie, perdita di concentrazione e memoria, isolamento, depressione. E i problemi si riscontrano sia dove si sta troppo tempo a contatto coi colleghi, anche al di fuori dall’ambito lavorativo, sia nei casi in cui ci si frequenta solo in ambienti professionali».
Ma come nascono i conflitti? Abbiamo interpellato diversi esperti, coach, che cercano di aiutare a mantenere un ambiente lavorativo sereno: si tratta di Chantal Gilardini Linder, una Professional Caoch che opera presso la 360 Coach Academy, di Guido De Carli, Business ed Executive Coach, di Alessandro Galli, NLP Coach e Trainer della ACG Coaching e di Paola Brumana, Executive Coach e Spiritual Mentor presso iovalgo. «I conflitti nascono nella maggior parte dei casi a seguito di una comunicazione inefficace, con valori, bisogni e motivazioni non espressi o espressi in maniera non appropriata», ci dice Chantal Gilardini Linder. Le problematiche si riscontrano in tutte le categorie lavorative. Tutti possono lavorare in team? Per Delcò sì, «anche se qualcuno ne ha più bisogno di altri. Servono autostima sufficiente per esporre le proprie idee e dunque se stessi, capacità di ascoltare gli altri, di accettare le loro opinioni e di portare avanti decisioni non condivise».
Difficile, per i nostri interlocutori, determinare se vi siano più problemi fra collaboratori dello stesso sesso oppure no. Diverso è certamente il modo di viverli, per De Carli, «le contrapposizioni fra uomini sono più egoistiche, nascono da dinamiche di potere, interferenze di settore. Fra donne sono di carattere più sottile e personale, e il risentimento dura più a lungo». Solo Gilardini Linder si sbilancia: «si riscontrano maggiori problemi quando i team sono di un solo genere, invece quando nei team ci sono entrambi i generi c’è molto più equilibrio».
Come costruire, dunque, un team vincente? La psicologa non ha dubbi, «sono una promotrice della diversità, di età, di sesso, di provenienze e esperienze professionali e formative: ciò crea ricchezza e mette al riparo dal decidere sempre nello stesso modo, dal farci trovare impreparati al cambiamento. Il mondo del lavoro è complesso e nella complessità non funziona la linearità».
«Competenze troppo specializzate, strutture funzionali rigide e team troppo specializzati sono un ostacolo all’innovazione, che non può che nascere da un dialogo aperto e un confronto di esperienze. In questo, strutture composte da team focalizzati non sulla singola e ripetitiva attività ma collaborativamente e cooperativamente sull’obiettivo finale possono essere la chiave per una produzione di valore», ritiene Galli, sottolineando, però, che non esiste una ricetta. Per De Carli, «tendenzialmente è umano che il collaboratore con maggiore esperienza voglia imporsi, e farlo con dei millennials che hanno tutte altre vedute e non temono l’autorità può creare delle contrapposizioni», ma anche per lui un mix aiuta l’innovazione. Per quanto riguarda le età e le capacità, per Gilardini Linder «un collaboratore high performer può sostenere, motivare, far crescere un low performer e viceversa un low performer può compensare la visione dell’high performer contestualizzandola e mostrando aspetti inediti, sempre col giusto equilibrio».
Per tutti i nostri interlocutori, fondamentale è il ruolo del capo: tocca a lui mediare, trovare soluzioni. Come? Per De Carli, il pugno duro è l’ultima ratio, «serve un dialogo continuativo». Rigida Delcò sul tema, «un capo ha il dovere di intervenire, nel caso accettare anche lui le critiche, ma assolutamente non deve permettere comportamenti discriminatori o dove si perdono di vista i valori fondamentali».
«Alle persone non piace sentirsi dire cosa fare dalla mattina alla sera senza possibilità di replica, si sentono insoddisfatte, demotivate, infelici. La leadership (che include certamente anche la capacità di delega) è quindi fondamentale affinché si mantenga un ambiente stimolante e produttivo. Purtroppo e troppo spesso succede che un capo, un manager e un leader siano cose molto diverse», constata Galli. «Col capo nascono molto spesso conflitti, specialmente quando egli non merita quella posizione, si sente minato e in pericolo, ha paura, non ascolta i bisogni e non osserva i segnali che gli arrivano. Va anche detto che molto spesso un capo è solo e spesso è più facile criticare che comprendere chi sta al vertice. Una dinamica simile a quella che avviene in famiglia fra figli e genitori…», osserva Paola Brumana.
Da quante persone deve essere composto un team, per funzionare? Per tutti, non conta il numero ma l’approccio, mentre Galli spiega che secondo studi recenti una squadra ottimale è formata dalle 5 alle 12 persone.
Quando non si riescono a gestire i conflitti nati in ambito lavorativo, intervengono figure esterne. Come agisce un coach? Spesso, nella nostra cultura, a differenza di quanto avviene nei paesi anglosassoni, in incognito, ovvero incontrandosi con la persona che aiuta senza che in azienda nessuno sappia di chi si tratta per non far sentire la persona sotto tutela. Spesso, partecipa a riunioni e a momenti di incontro fra i dipendenti, presentandosi però come un consulente esterno, oppure, più sovente, incontra il suo «allievo» in luoghi neutri.
Il lavoro consiste nel simulare le situazioni nelle quali l’assistito deve migliorare, nel capire come poterle vivere in modo diverso e a suo vantaggio: «Insegniamo a applicare i concetti di cui parliamo, per esempio, quello di leadership, alla persona interessata. Ma essa deve capire che non è in punizione e che anzi l’azienda sta investendo su di lui», precisa De Carli. Il quale, come consiglio finale per migliorare il clima, parla di «feedback positivi: non conta solo il cosa si dice ma il come». Per Brumana, basilare è «creare un ambiente di lavoro in cui regnino la fiducia, il supporto, la gratitudine, l’apprezzamento, la gioia per il risultato positivo dell’altro, l’altruismo, la bontà, la generosità, il dialogo, l’onestà e la trasparenza», mentre Gilardini Linder insiste sulla necessità «di sviluppare la comunicazione: in seguito consiglierei di approfondire le diverse tecniche e stili di leadership», fattori per cui un coach può essere molto utile.