«Viviamo sempre più nell’angoscia di una malattia imminente, avvolti in una sensazione di pericolo che ci spinge a sottoporci a divieti e limitazioni, ad affidarci alle mani di specialisti di ogni genere, in un continuo monitoraggio di ogni singolo organo del nostro corpo». Il filosofo e psicanalista argentino Miguel Benasayag così descrive lo spaccato di una società sempre più sanità-dipendente.
È lecito chiederci se la nostra grande offerta sanitaria sia sufficiente a colmare questi bisogni crescenti che hanno origini socio-filosofiche, ma che inevitabilmente ci stanno presentando un conto sempre più salato. Un primo spunto di riflessione viene dal direttore dell’Ospedale Regionale di Lugano Luca Jelmoni che, citando un articolo della NZZ, paragona il nostro sistema sanitario a quello danese: «In termini numerici (numero di ospedali per unità di popolazione), in Danimarca ci sono 61 ospedali a fronte dei 281 svizzeri dove disponiamo di 4,6 letti per mille abitanti (a fronte dei 2,6 letti danesi). In Svizzera, la spesa per la sanità rispetto al PIL è del 12,3 percento, in Danimarca del 10,2». Potremmo dunque pensare che siamo meglio curati, ma: «Eppure, ad esempio, secondo la NZZ il numero di morti per infarto è più alto da noi che in Danimarca, così come il numero di interventi per abitante». Secondo il nostro interlocutore, un modello simile a quello portato ad esempio dovrà indicarci la direzione da intraprendere: «281 ospedali generano costi sempre meno sostenibili, a fronte di risultati che grazie alla concentrazione possiamo migliorare a beneficio di un livello qualitativo che sappia sostenere e potenziare la qualità delle cure». Ci chiediamo se la medicina, con la sua evoluzione di offerta terapeutica sempre più specialistica e multidisciplinare, abbia le sue responsabilità. Secondo il professor Paolo Merlani, direttore sanitario ORL e primario di Medicina intensiva, questa crescita dei servizi medici va guardata in prospettiva: «La medicina vive un’evoluzione importante e così continuerà a fare: ciò che oggi appare caro, impossibile o destinato a saturare il nostro sistema sanitario, domani non lo sarà più». Il medico porta ad esempio l’intervento di Bypass coronarico: «Dopo un aumento impressionante, oggi è raro perché sostituito da interventi non invasivi, oppure la prova del DNA che fino a 10 anni fa era quasi impossibile immaginare di routine e a costi contenuti come invece è diventata oggi».
Il professor Merlani spiega di non avere una risposta sulla questione se sia la domanda sociale a indurre la risposta medica o invece l’offerta a causare la domanda: «Sconfiniamo in un discorso filosofico che implica diversi punti di vista: penso che la medicina abbia qualche responsabilità sul trend sociale (sono responsabile perché produco certe tecniche); però non saprei dire se davvero l’offerta induca l’abuso o se la tendenza è già tale nel perseguire una cultura generalizzata del «ho diritto di vivere in eterno, giovane e in buona salute». D’altronde, lo specialista ricorda: «Ognuno ha un diritto universale alla cura».
Tuttavia poter rendere sempre retroattivi certi meccanismi patologici è altra cosa: «Per ora non sempre possibile, a causa degli odierni limiti tecnologici». Altro discorso è il desiderio di prolungare la vita con qualsiasi mezzo e ad ogni costo: «Talvolta possiamo prolungare la vita solo attraverso certi compromessi: allora bisogna chiedersi a che prezzo far vivere ad ogni costo? Dove costo è inteso in termini di dignità e di sofferenza umana, sofferenza famigliare e sociale».
La questione della qualità della nostra vita ci porta alla cultura della dignità umana: un tema, anch’esso, che ritorna ad essere filosofico e che lo specialista invita a rivalutare. Ritorna così la domanda su dove piazzare l’ago della bilancia fra cure e cure «ad ogni costo», fra medicina e benefici o accanimento. E su quanto la nostra offerta sanitaria si possa paragonare all’offerta dell’industria dove la domanda genera l’offerta e l’offerta porta ad aumentare la domanda.
Il direttore Jelmoni, senza lesinare considerazioni talvolta scomode che però qualcuno deve pur fare, ci pone dinanzi a un’accurata analisi: «Sostanzialmente, sul tema dei costi, non possiamo paragonare l’industria alla sanità, dove essi non sono prioritari in relazione all’essere ammalato e volersi legittimamente curare. La tecnologia sanitaria esiste e voglio poterne usufruire: è un legittimo segno dell’evoluzione sociale».
Eppure, il nostro interlocutore ha già affermato che da noi qualche correttivo sarà d’obbligo e verterà sul senso di responsabilità collettivo di tutte le parti: «In Ticino la situazione è analoga al resto della Svizzera, seppur con qualche vantaggio, ad esempio, nell’EOC dove già gli ospedali lavorano in rete e questo permette di ottimizzare alcune risorse, centralizzare la cura di certe patologie e di conseguenza essere più efficienti non solo dal profilo economico, ma con un’offerta più altamente qualitativa delle cure. Inoltre, settore pubblico e privato hanno entrambi una forza individuale e un ruolo specifico: una «concorrenza» che porta uno stimolo imprenditoriale benefico nell’offerta sanitaria globale».
Pur dicendosi ottimista, Jelmoni ricorda che la Svizzera è «un’isola ad alto costo», seconda solo agli Stati Uniti e ribadisce: «Probabilmente col tempo non sarà più possibile offrire tutto ovunque e si dovrà mettere ordine e razionalizzare la sanità, conservando e migliorando così la qualità specialistica terapeutica».
Bisognerà considerare dei limiti, e al professor Merlani chiediamo chi dovrà porli, calcolando il dovere di cura del medico: «È una domanda fondamentale: chi avrà il dovere? Chi il coraggio? Chi sarà più adatto a porre i limiti necessari?». Egli sostiene una responsabilizzazione della medicina e del medico nel dialogo al capezzale del paziente: «Dobbiamo assumerci questa responsabilità, perché disponiamo degli strumenti per dialogare con paziente e parenti, discutendo cosa è giusto e cosa lo è di meno in termini di costi etici, di qualità di vita, a livello filosofico ed economico».
D’altronde, i nostri interlocutori sono unanimi nell’esprimere l’importanza di una maggiore assunzione di responsabilità e consapevolezza della società e del paziente, come riassume Merlani: «L’individuo deve recuperare il potere nel cogliere informazioni e cultura, nel difendere i propri valori e la sua dignità anche e soprattutto nella malattia. Tutti dovremmo coltivare il coraggio di conoscere meglio noi stessi, l’altro e i valori. La società, dal canto suo, dovrebbe rivalutare i tabù della morte, della sofferenza e di tante altre sfumature della vita».