Dal colonnato delle Corderie dell’Arsenale, ai padiglioni ai Giardini, oltre agli eventi collaterali nelle sedi esterne, la Biennale veneziana di Architettura è molto vasta. Non bastano diversi giorni, infatti, per vedere i modelli, i video e le installazioni che compongono lo scenario scelto dai curatori. Ci proponiamo, quindi, di offrire ai lettori una piccola guida, una selezione dei siti e dei progetti più interessanti, descritti in modo motivatamente di parte. Il tema di quest’anno è Freespace, ed è stato proposto dalle curatrici Yvonne Farrel e Shelley McNamara. Il loro studio Grafton Architects è a Dublino ed è noto soprattutto per i progetti di edifici universitari, come l’ampliamento dell’Università Bocconi a Milano, il Campus UTEC a Lima e il Marshall Building della LSE a Londra. Koolhaas nel 2014 e Aravena nel 2016 avevano diretto la mostra con un’ottica molto precisa – il primo indagando i principi e le regole «fondamentali» della cultura della costruzione, il secondo puntando l’attenzione sulla «responsabilità civile» del mestiere – e hanno avuto il merito di promuovere una selezione rigorosa, che ha evitato la passerella di star mondiali e la spettacolarizzazione dell’architettura. Quest’anno le Grafton hanno tentato di ribaltare il punto di vista, per guardare alla capacità, propria del progetto architettonico, di migliorare il mondo, realizzando spazi di libertà. «Per noi l’architettura» hanno scritto «è la traduzione di necessità in spazio significativo». Cioè, la soluzione dei bisogni attraverso l’architettura comporta esiti che vanno oltre il semplice soddisfacimento degli stessi bisogni. Obiettivi come la generosità, il senso di umanità, la soluzione di desideri inespressi, il benessere e la dignità, lo spazio democratico, sono, infatti, concetti più raramente ritrovabili nel lessico architettonico corrente, e sono comprensibili a tutti.
Tuttavia l’apertura semantica di Freespace è così ampia e generale da risultare addirittura un concetto generico, e infatti i progetti esposti l’hanno interpretato nei modi più diversi e contradditori, e con difficoltà il visitatore riesce a cogliere il filo rosso che li tiene insieme. Ognuno dei progetti dei 71 architetti invitati – alcuni molto noti e molti altri poco o per nulla conosciuti – è illustrato, oltre che dalla consueta presentazione dell’autore, anche da un testo di motivazione delle curatrici. Un modo nuovo e gradito dal pubblico, che tuttavia tradisce la necessità di tessere il filo che identifica il tema della mostra.
Tra gli invitati ci sono i professori di ruolo dell’Accademia di Mendrisio, un omaggio delle Grafton alla scuola dove insegnano da diversi anni. Sparsi tra gli atri invitati, questi architetti non appaiono come un gruppo e non segnalano la presenza della scuola, e quindi la loro scelta perde di motivazione. Uno schermo proietta una magistrale lezione di Aurelio Galfetti, un grande modello espone il lavoro degli studenti di Frédéric Bonnet dedicato all’inclusione sociale, e i pannelli curati da Elisabeth & Martin Boesch illustrano la complessità delle relazioni tra vecchio e nuovo dei progetti di riuso e trasformazione, tema principe del futuro del mestiere. A Valerio Olgiati è stato affidato l’allestimento dello spazio finale delle Corderie, che è stato risolto in modo spazialmente eccellente dall’architetto grigionese con un mazzo di grandi colonne bianche, che formano il fondale della lunga prospettiva.
Tra gli spazi allestiti dagli altri invitati, ricordiamo un efficacissimo video che percorre gli spazi liberi della sistemazione della berlinese Museumsinsel, intorno al Neues Museum di David Chipperfield, una sala curata dai londinesi Caruso St John, con curatissimi disegni dei fronti urbani dei loro progetti, confrontati con fotografie delle architetture delle città europee cui si sono ispirati. E, sempre sul tema della memoria del passato come materiale del progetto contemporaneo, una ricerca di Cino Zucchi su una mirabile opera di Luigi Caccia Dominioni, un piccolo e complesso pezzo di città a Milano, in corso Italia.
Riguardo ai padiglioni nazionali, il Leone d’Oro attribuito al padiglione svizzero è ampiamente meritato. Il lavoro dei giovani curatori (A. Bosshard, L. Tavor, M. van der Ploeg, A.Vihervaara), il cui incarico è stato conferito attraverso un concorso, ha innanzitutto un esito divertente, che è già di per sé una qualità rara. Il grande gioco è una sequenza di stanze dalle pareti, porte e finestre bianche e con parquet di legno chiaro, realizzate a scale diverse, da quella reale a quella ridotta a un quinto a quella grande due volte. Anche i complementi dell’arredo, come le maniglie o le prese dell’energia, sono realizzati in scala, provocando un effetto singolare di straniamento. C’è l’ironia per le foto che gli architetti scattano quando gli appartamenti non sono ancora abitati e personalizzati, è l’occasione per riflettere sulla banalità degli interni convenzionali e senza tempo, inalterati attraverso le mode architettoniche, e per riflettere sul tema della scala, che la progettazione elettronica ha derubricato da tema compositivo a procedura meccanica, e su tanto altro.
Il padiglione tedesco, come sempre molto «politico», è dedicato al protezionismo e ai confini. A 28 anni dalla caduta del Muro di Berlino, il padiglione illustra i progetti di rigenerazione urbana realizzati nelle aree del Muro, per dimostrare come la liberazione dai muri è occasione di conquista di spazi di libertà e di benessere. Anche il Padiglione degli USA ha un tema politico, dedicato alla Cittadinanza (Dimension of Citizenship), intesa come un complesso di diritti, dall’accoglienza alla sostenibilità ambientale. È tale la contraddizione tra il contenuto dei temi svolti e la politica dell’attuale governo americano, che, evidentemente, la scelta dei curatori risale al precedente governo Obama.
Il padiglione dell’Italia è dedicato all’Italia minore, alla provincia lontana dai grandi percorsi turistici, dove il paesaggio naturale ha ancora un rilievo dominante e i piccoli centri sono oggetto di ricerche architettoniche isolate e potenzialmente importanti. La Repubblica Popolare Cinese ha allestito, vicino a quello italiano, un padiglione esemplare, non dedicato – come sarebbe stato facile aspettarsi – ai progetti nelle grandi città, ma diretto ad illustrare, con sapienza e completezza, alcuni piccoli interventi nei centri minori, dove gli architetti non ascoltano le sirene delle mode internazionali e ricercano invece strade originali e coltamente contestuali. Un altro padiglione che illustra progetti di spazi pubblici di grande qualità è quello portoghese, sito a palazzo Giustinian, vicino al Ponte dell’Accademia, oltre al padiglione finlandese, dedicato a progetti di biblioteche pubbliche.
Infine è necessario segnalare le Vatican Chapels, nei bei giardini della Fondazione Cini a S. Giorgio, sul bordo della laguna. È la prima volta che il Vaticano partecipa alla Biennale, ed ha scelto di farlo ricorrendo ad un intervento di grande visibilità. Dieci architetti dalle qualità espressive molto diverse hanno costruito dieci cappelle, riferite all’esempio magistrale della cappella nel bosco che Asplund ha realizzato nel 1920 nel cimitero di Stoccolma. Una di queste cappelle, progettata dal portoghese Souto de Moura, è davvero mirabile. Un recinto di blocchi di Pietra di Vicenza, con il pavimento in leggera discesa, è parzialmente coperto da una lastra del medesimo materiale, la cui ombra continua a mutare. Elementare e primordiale, lo spazio ha una forte capacità emozionale. Lo stesso architetto ha ricevuto il Leone d’Oro per il migliore partecipante alla Mostra, per il progetto di trasformazione in albergo di un convento a Monsaraz, nell’Alentejo, un’opera di riuso caratterizzata da una controllata economia espressiva. E a Kenneth Frampton, il grande critico che ha insegnato anche all’Accademia di Mendrisio, è stato conferito il Leone d’Oro alla carriera.
Tra luci ed ombre, una Biennale che non passerà alla storia, ma che vale la pena di visitare per le suggestioni e le riflessioni che un tema come Freespace, seppur così largo da comprendere di tutto, provoca nei visitatori interessati alla cultura architettonica.