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Quando le cure falliscono

Editoria - In un libro la cronaca di una storia di profondo amore e di 675 difficili giorni di ospedale
/ 06.03.2017
di Maria Grazia Buletti

«Questa orribile situazione in cui mio marito ed io ci siamo trovati mi ha fatto crescere: oggi ho più coraggio di dire ciò che penso; sono diventata un’altra persona, anche grazie al confronto quotidiano con questi curanti». Attraverso Fallimento terapeutico (Capelli editore), un libro di 816 pagine, Paola Zuppiger ci consegna la cronaca minuziosa di una storia lunga 1235 giorni di sofferenza, 675 giorni d’ospedale, 500 in terapia intensiva, conclusasi con la morte, evitabile, del marito. 

All’inizio, un errore omeopatico: «Tutto comincia da alcuni basaliomi a crescita lenta, che non fanno metastasi; mio marito si affida a un medico FMH e omeopata, che dopo avere visto le lesioni ci comunica di poterle curare attraverso l’omeopatia: assunzione di tre granuli omeopatici mensili per tre mesi». Qualcosa non va per il verso giusto e gradualmente la pelle di Gustavo si ricopre di piaghe aperte. A questo punto il medico omeopatico dice: «Ho sbagliato e non so cosa fare». Quella reazione imprevista causa anche acqua nei polmoni: «Si va in ospedale». E tutto si trasforma presto in un interminabile incubo costellato di sofferenze e ostacoli, fallimenti terapeutici, diritti calpestati, rapporti conflittuali con i curanti, siano essi medici, infermieri, e strutture ospedaliere. Un’incalzante odissea resa ancora più drammatica dal fatto che si tratta di quanto accaduto a suo marito, ricoverato in ospedali e cliniche sia ticinesi sia svizzero tedesche, senza un lieto fine, nell’ultimo ricovero oltralpe, la clinica di riabilitazione: «Dopo nove mesi e un giorno, ritorno a casa da sola». 

Ha condiviso con l’amato marito, invano, ogni attimo, ogni ora di ogni giorno di oltre due anni di odissea tra ospedali, cure a domicilio, mesi (più di cinque) in cui lei stessa si trasforma in una vera e propria curante specializzata, e clinica di riabilitazione. Dopo la morte del marito, Paola Zuppiger decide di riordinare i contenuti del suo puntualissimo diario per trasformarlo in un libro dalla scrittura incalzante e disarmante, precisa e perciò spietata nel trasmettere riga dopo riga quel senso di incertezza, di confusione, di onnipotenza di alcuni curanti, insieme alla sua impotenza nel non essere ascoltata, considerata. E ancora, dalle righe emerge la trasparenza del paziente in quanto individuo, con le proprie peculiarità che non sottostanno a protocolli standard, noncuranti che la vita, come la malattia e la cura, tutto può essere fuorché uniforme e uniformata. 

Non è stato facile, all’inizio, immergerci nelle pagine di questo libro che, impietoso, ci restituisce le tappe di un doloroso quanto infinito pellegrinaggio dentro e fuori dai diversi reparti ospedalieri e riabilitativi, a ricostruire inesorabilmente un caso di «fallimento terapeutico», come la stessa autrice dice di essersi sentita dire, a un certo punto, da due medici. Ben 816 pagine che Paola Zuppiger, con lo pseudonimo di Alessia J., ha avuto il coraggio di scrivere. Una buona dose di coraggio è pure necessaria a chi vuole iniziare la lettura. 

All’autrice chiediamo perché un libro così lungo, se mai serviva per lenire le sue legittime ferite, qual è l’obiettivo: «Ho scritto questo libro affinché simili orrori non accadano più, perché si possa prendere coscienza del fatto che le persone, negli ospedali, devono essere rispettate soprattutto in quanto persone, e che si possa sviluppare l’umanità che manca incredibilmente tanto». Non è dunque una sorta di esercizio terapeutico che spinge Paola Zuppiger alla scrittura: «Tutte queste cose le avevo scritte, sera dopo sera, nel mio diario; poi a mio marito non serviva più, visto che era deceduto; volevo far riflettere la gente e i curanti; desidero ci si renda conto della mancanza di ascolto, del senso di onnipotenza di alcuni camici bianchi, dell’agire corrente puramente tecnico con prescrizione di farmaci, terapie, esami invasivi secondo protocolli che non tengono conto dell’individuo, malgrado avessi sempre comunicato le reazioni paradosso che mio marito aveva nei confronti di alcuni farmaci specifici».

Attraverso ogni riga, in divenire, ci si chiede dove siano finiti l’ascolto dei bisogni, dei desideri, delle aspettative del paziente Gustavo, e si vive l’angoscia della moglie di cui poche volte sono accolte le preziose informazioni, le domande, i timori, le angosce. Un obiettivo supportato dall’idea iniziale di scrivere sotto pseudonimo, Alessia J., e di rendere irriconoscibili nomi di medici e di ospedali e cliniche: «Poi, ho capito che Alessia aveva bisogno di un volto, di venire allo scoperto, affinché la storia, la nostra storia, fosse credibile per quella che è. Rimane la scelta di non divulgare nomi, cognomi e luoghi, a rispecchiare la coerenza di voler evidenziare il contenuto, la storia».

Stando alle cifre del 2010, negli ospedali svizzeri ogni anno morirebbero tra i 500 e i 2000 pazienti a causa di errori medici, cifre che il medico e presidente della Fondazione svizzera per la sicurezza dei pazienti Dieter Conen ritiene ancora attuali. Con il racconto del proprio vissuto, Paola Zuppiger non fa emergere solamente il profondo legame d’amore che la lega al marito e le permette di restare al suo fianco fino all’ultimo, donna, moglie, infermiera, curante. L’autrice mette sul piatto una realtà che mostra chiaramente un ampio margine di miglioramento di stile, rispetto, umanità e ascolto nell’ambito della relazione curante-paziente, dove i famigliari devono essere considerati parte attiva e preziosa fonte di collaborazione per l’obiettivo comune del prendersi cura dell’ammalato nel miglior modo possibile.

Desidero che le persone, soprattutto i curanti, prendano coscienza; senza polemiche e senza buttare la croce addosso a tutto il sistema, nel quale ho trovato qualche persona positiva, e questo si legge nel libro. Il fango? Non l’ho buttato su tutto, ma me lo sono trovato addosso io», conclude Paola le cui cicatrici, dice «sono talmente profonde che non credo si potranno mai richiudere, malgrado il tempo passi e io ho capito di dover andare avanti. Apprezzo di nuovo un tramonto, ho imparato a meditare, a fare astrazione, a pensare a quella pianta, al fiorellino giallo e al pezzettino di cielo che mi confortavano nei vari ospedali, permettendomi di trovare la forza di continuare a vivere».