Al di sotto della dicotomia pubblico-privato si situano importanti fenomeni culturali che includono la storia del diritto, con quello romano in testa, e la storia della filosofia politica, da Aristotele ai giorni nostri passando per Hobbes e Rousseau.
Interessanti considerazioni si possono però fare anche da altri punti di vista, meno formali di quelli giuridici e più concreti di quelli filosofici, anche se ambedue giocano un ruolo fondamentale per interpretare l’uso corrente dei termini in questione.
In effetti, l’uso quotidiano e ormai universale dei termini privato e pubblico si fonda su una loro definizione implicita largamente condivisa e, in fondo, coerente con quella canonica del diritto, che stabilisce il primo come regolazione dei rapporti fra soggetti o entità individuali e il secondo come regolazione dei rapporti fra gli individui e lo Stato. La cosa è certamente dovuta, da un lato, all’assuefazione culturale, ossia ad una ormai millenaria tradizione, ma essa non solleva alcun contrasto con la nostra natura perché è aderente con le sue proprietà. Primo fra tutti la territorialità, cioè la naturale inclinazione degli esseri umani, comune del resto a tutte le specie, inclusi animali e piante, a considerare tacitamente il proprio spazio vitale, privato, come «giusto» e inviolabile, ammettendo, tuttavia, di fatto o di diritto, che, al di là del proprio «territorio» (in senso lato) sia altrettanto giusta e conveniente l’esistenza di uno spazio non privato bensì pubblico, cioè «di tutti». Non a caso l’espressione «privato» deriva dal termine latino privus (il singolo) mentre il termine «pubblico» deriva da populicus (del popolo).
È rilevante osservare come tutte le società conoscano la differenza di cui stiamo parlando e come l’antropologia culturale ci segnali, significativamente, il passaggio graduale da quello che oggi chiameremmo un diritto esclusivamente privato (per esempio società primitive in cui ci si faceva giustizia da sé) a quello che poi avremmo definito diritto pubblico basato su regole comuni.
Non mancano però circostanze, tutt’altro che rare, in cui il confine fra le due realtà tende ad essere ambiguo e a generare situazioni spontanee di ordine conflittuale che vanno al di là, o restano al di qua, di chiare valutazioni giuridiche e che, quindi, non possono essere analizzate se non in chiave sociologica.
Nella nostra vita quotidiana, per esempio, è molto frequente l’interazione fra individui e gruppi in locali definiti pubblici (ristoranti, bar, discoteche, sale cinematografiche, ecc.) ma che, in realtà, sono luoghi di proprietà privata frequentati da altri privati. Ovviamente anche lì valgono le norme generali del diritto privato e pubblico ma, in aggiunta, valgono anche regole, non scritte, che impongono rapporti che si possono ricondurre al rispetto reciproco, alla cortesia e al galateo. Tali regole, di origine culturale, sono, a tutti gli effetti, analoghe alle norme privatistiche ma anche pubbliche, nel senso che valgono non solo per il rapporto fra individui ma anche per il rapporto fra gli individui e l’ente privato che ospita gli individui. Il titolare di un ristorante ha una oggettiva responsabilità nella gestione dei rapporti fra i clienti: se uno di loro prende a gridare disturbando gli altri è lui che interviene con una sorta di potere di repressione riconosciuto, quanto meno, dagli altri clienti. Se nell’ascensore di un palazzo privato qualcuno si mette a ballare, pregiudicando la stabilità del mezzo, altrettanto sono i presenti a dover intervenire facendo valere, prima che il caso sia valutato dai tutori della legge, le norme, non scritte, del buon senso. Più in generale, la transizione fra l’area privata e quella pubblico avviene ogni volta che, usciti di casa – luogo privato per eccellenza – entriamo nel luogo pubblico per definizione: la strada. Ciò avviene senza che, dentro di noi, scatti alcun segnale specifico, come accadrebbe ad un robot, perché la consuetudine prende il sopravvento. Di conseguenza i nostri atteggiamenti cambiano, per così dire, automaticamente e i nostri comportamenti si adeguano ad una realtà ben diversa da quella domestica. Ciò introduce un filtro alla nostra libertà per la semplice ragione che, sulla strada, dovremo interagire con altri dai quali ci aspettiamo l’osservanza delle nostre stesse regole, quelle scritte del diritto ma anche, e forse più, quelle che chiamiamo «buone maniere». Queste ultime costituiscono un insieme cospicuo di modelli di comportamento sedimentati nel tempo e sempre in via di aggiornamento. Anni fa, negli anni Trenta del secolo scorso, Willy Ellpach, nel suo libro L’uomo della metropoli già segnalava l’irritazione di chi, seduto a tavola all’aperto in una delle belle trattorie della campagna del Baden-Württemberg, subiva il fastidio causato da un’autoradio a tutto volume di un cliente appena sopraggiunto con la sua vettura scoperta. Come è noto, quando i cellulari sono stati introdotti, il disturbo reciproco era frequente. In definitiva, ogni nuova tecnologia, se distribuita in massa, può generare situazioni di questo genere. È a questo punto che regole non scritte, ma comunque di pubblica utilità, emergono come feedback spontanei svolgendo il ruolo di norme vere e proprie, persino corredate da sanzioni quali la disapprovazione corale o il rifiuto ad interagire con chi non rispetti il comune sentire. Il diritto, poi, normalmente si adegua, sebbene attraverso un inevitabile cultural lag, fissando formalmente ciò che sostanzialmente era già norma comune.
Il passaggio dal privato al pubblico presenta tuttavia un dettaglio curioso, ma significativo. Al termine privacy, invocato in mille occasioni, non corrisponde alcun termine, di pari diffusione, destinato a tutelare ciò che è pubblico e, per farlo, si deve ricorrere a concetti più astratti come il «senso civico». Un riferimento genericamente etico a qualcosa di più vasto, quasi ineffabile e sicuramente meno rigorosamente circoscrivibile che non la privatezza con la sua concreta e ben individuabile realtà . È come se il punto fermo, fondamentale, fosse ciò che costituisce la privatezza e ciò che è pubblico costituisse una proiezione esterna, una sorta di rinuncia all’estensione potenziale del privato. Norberto Bobbio ha osservato che i diritti individuali non sono altro che i doveri degli altri. Il passaggio dal privato al pubblico richiede, dunque, che emerga chiaramente l’altro che c’è dentro di noi.