I riti arrivano da lontano nel tempo, molto lontano. Parliamo qui di un rituale legato al matrimonio, che si trova nelle nostre valli, ma non solo: anche nel nord Italia, nelle Marche, in Abruzzo, a Venezia, in Francia, in Inghilterra, nel Galles, in Russia, nei Balcani... forse ovunque in area europea. Si tratta di una linea simbolica da oltrepassare prima di sposarsi. Riguarda un passaggio importante, da ragazzo a uomo sposato, ma in particolar modo è rimasto attaccato a chi, il giorno delle sue nozze, «porta via» da un villaggio una ragazza. Cioè riguarda soprattutto il forestiero che si sposa nel paese di lei e poi la conduce in un altro posto.
Qualche mese fa Nello Leonardi di Bedretto mi ha mandato questa foto, la cui origine non ricorda, con la dicitura scritta a mano dietro: La frecia degli sposi. Ho interrogato il Centro di Dialettologia della Svizzera italiana, Ottavio Lurati, i Documenti orali della Svizzera italiana e il volume Fidanzamento e Matrimonio de Il Ciclo della Vita di Marcello Canclini. Ho scoperto prima di tutto che questa linea, questo sbarramento, ha vari nomi, oltre a frecia (Bellinzona, Leontica, Leventina, Cavergno, Sopraporta,); si chiama anche di ròsta (Valmaggia, Caviano, Gerra Gambarogno, circolo di Tesserete, Sonvico), sbarada (Personico, Corticiasca, Valcolla), sciópa (Losone) e sèra (Val Poschiavo), barra (Venezia). Poi, secondo le attestazioni raccolte nella Svizzera italiana, lo sbarramento poteva essere costituito semplicemente da un nastro o da una ghirlanda tirata fra due sostegni, oppure da impedimenti più consistenti, come un tavolo, una pianta tagliata, fascine con sopra una zucca e assi ai lati, e altri oggetti. In Valle Bedretto, dove si svolge ancora tale rituale, negli ultimi anni si è assistito allo sbarramento costruito con un cumulo di neve. Infine, gli studiosi dicono che talvolta era una prova di forza e quindi bastava l’abilità per superarla, più spesso invece per oltrepassare l’ostacolo bisognava pagare un pedaggio alla società giovanile del luogo: si trattava quindi di una sorta di dazio in cambio della sposa che veniva sottratta al suo villaggio natio.
A far parte del rito c’erano anche discorsi predefiniti, satirici, spesso in rima e un ruolo principale lo svolgevano i gruppi di giovani. La Juventus, o abbazia del pazzi, come venivano chiamate le associazioni giovanili, nasce in Europa tra il 1200 e il 1500. Questi gruppi organizzavano i festeggiamenti per il Carnevale, il Calendimaggio, le feste primaverili, la festa patronale, partecipavano alle processioni e non di rado tenevano sacre rappresentazioni in chiesa. Esercitavano anche un potere disciplinare e di polizia per assicurare l’ordine delle manifestazioni. Erano rappresentate da un capitano o da un presidente, un vice-capitano, un segretario, uno o più cassieri e altri che rivestivano cariche meno importanti, tutti celibi e di solito tra i 15 e il 45 anni; le loro entrate principali provenivano dalla barriera degli sposi.
Il primo atto del rito della frecia si svolgeva generalmente qualche giorno prima del matrimonio. La Gioventù piombava dunque a casa della sposa, una sera che il promesso sposo era presente, e chiedeva con prepotenza di fare i conti con lui. I giovanotti gli facevano capire che la ragazza sarebbe stata «per natura» destinata a uno di loro, ma se lui se la voleva portare via, allora doveva pagare.
Il secondo atto del rito era poi per il giorno del matrimonio: sul sagrato della chiesa, prima della cerimonia, arrivavano i giovani, vestiti come rappresentanti della legge, ma vieppiù, negli anni, travestiti in modo buffo e con qualche arma per ricordare che avevano il compito di far rispettare una legge. A volte accompagnavano già il corteo che si recava in chiesa, davanti alla quale veniva letto un discorso satirico umoristico; poi lo sposo consegnava la busta con i soldi pattuiti, e loro tagliavano il nastro rappresentante la barriera agli sposi, spesso sparando sarasette o gioiose schioppettate in aria. Poi veniva offerto dalla Gioventù un piccolo rinfresco, più o meno ricco a seconda dell’ammontare del dazio, e tutti accompagnavano la sposa all’altare (altre volte invece i ragazzi se ne andavano e tornavano, se invitati, per i festeggiamenti che seguivano). Il nastro restava spesso sulle spalle della sposa come ornamento.
Scrive lo studioso di folklore Marcello Canclini che a Bormio alla fine del secolo scorso il «costo» di una sposa da portarsi via si aggirava intorno alle 300mila lire. In caso di mancato pagamento, la minaccia era quella di creare disordine e disturbare il corteo nuziale col suono delle zampogne o altri disturbi. Dalle nostre parti, secondo due testimonianze orali raccolte in Leventina nel secolo scorso, sentiamo parlare più modestamente di «qualcosa che ci basti per bere un bicchiere di vino» quella sera. Alcuni testimoni parlano di varie tariffe a seconda della bellezza della sposa (una ragazza con i capelli rossi valeva meno di tutte, perché c’era chi pensava che avrebbe avuto il latte amaro) e talvolta si faceva uno scherzo allo sposo; è capitato per esempio che gli si chiedesse di arrampicarsi sul campanile della chiesa (con le scarpe lisce eleganti) a prendere la pergamena con il discorso mentre i manigoldi suonavano a tutto volume le sirene dei pompieri.
Tutti questi racconti fanno pensare più a un patto commerciale che a un rito propiziatorio, e così anche gli statuti di Vallemaggia e Capriasca, nel XIV e XV secolo, in cui si vieta esplicitamente sia di erigere sbarramenti a coloro che conducevano giovani spose sia di richiedere un pedaggio; eppure in alcuni posti (come a Fontana, frazione di Airolo e in Capriasca, a Vaglio e Lopagno) si parla di «frasche», «di abeti» e a Venezia addirittura di una «ghirlanda di fiori». Ecco che allora affiora un altro rito antico, quello del ramo d’oro, della potenza magica delle piante che si trasmettono all’uomo donandogli fertilità e ricchezza. La bacchetta magica, infatti, è un’evoluzione fiabesca di quel contatto con la pianta che dona potere a chi viene toccato da lei.
E cosa ne è oggi della frecia? Abbiamo potuto ascoltare in questi giorni i ricordi di una madre e di una figlia che a Villa Bedretto, nell’aprile scorso, hanno assistito a un rito dello sbarramento. Lo sposo non era di lì e dopo il matrimonio sarebbe andato a vivere da un’altra parte con la ragazza. «Gli hanno eretto un muro di neve, perché sebbene fosse già primavera inoltrata aveva nevicato ancora; non sappiamo chi esattamente l’ha fatto, pensiamo i ragazzi del posto, gli amici della sposa. Il fidanzato ha dovuto spalare per crearsi un varco e da lì sono passati tutti gli invitati. Ognuno dava qualcosa».
Ottavio Lurati, a lungo insegnante all’Università di Basilea di italianistica e grande studioso di etimologia della lingua regionale della Svizzera italiana, commenta così: «La frecia, come si pronuncia in Leventina la parola fracia, viene dal latino fracta via, strada interrotta. Anche Stefano Franscini si chiama così perché la sua famiglia abitava presso una frecia, cioè un vallone, un avvallamento». A Villa Bedretto, per esempio, si chiama frecia anche la zona all’inizio e alla fine del paese dove ci sono i muraglioni dei ripari valangari. «Ma per tornare alla tradizione degli sposi – conclude il professore – mi stupisce sempre, e allo stesso tempo mi dà conferma della natura umana, vedere come le usanze siano vischiose e si spengano solo adagio adagio, mutando spesso un po’ alla volta, di generazione in generazione».