Recentemente Tatiana Lurati e Gina La Mantia, rappresentanti del PS in Gran Consiglio, hanno inoltrato un’interrogazione al Consiglio di Stato, affinché il nostro governo rifletta sui codici di abbigliamento imposti da alcune federazioni sportive per le loro atlete. Sotto tiro ci sono soprattutto la ginnastica artistica, con i suoi body sgambati, e il nuoto. Secondo loro, le prodezze atletiche finirebbero in secondo piano, offuscate dall’aspetto fisico delle ragazze.
Lurati e La Mantia sostengono che ci sono ancora molti ostacoli sul cammino dell’uguaglianza e delle pari opportunità fra uomini e donne, in generale, e nello sport in particolare. Come dare loro torto? Il sessismo nello sport è un dato di fatto, tuttavia mi sorgono dubbi e perplessità su dove collocare le sue manifestazioni più deleterie. In tempi recenti, soprattutto a partire dagli anni Sessanta-Settanta, la liberazione della donna (utilizzo il termine «liberazione» rifacendomi al francese MLF, Mouvement pour la libération de la femme), è passata anche attraverso una progressiva spoliazione del proprio corpo. Un processo che non aveva nulla di malizioso, morboso o provocante. Anzi, tutt’al più lo si poteva considerare come provocatorio, nel senso che le donne dell’epoca rivendicavano il diritto di fare del loro corpo ciò che volevano.
In quest’ottica sarebbe possibile dare ragione al testo dell’interrogazione, visto che il codice di abbigliamento è imposto dalle federazioni sportive. Ma, si sa, lo sport non è un’oasi anarchica, comporta delle regole, e queste vanno rispettate, da parte di tutti, uomini e donne. Io sono convinto che in un esercizio alla trave di una ragazza, che sia miss universo o che sia bruttarella, l’occhio va alla plasticità del movimento, all’armonia del gesto, allo stupore per l’acrobazia. Se così non fosse, saremmo probabilmente in presenza di una patologia, e allora non è più una questione di costumini.
Il sessismo si annida altrove. Lo ritroviamo là dove le ragazze non sono ammesse alle lezioni di educazione fisica scolastica e dove lo sport è un affare esclusivamente maschile. Ad esempio, il principe Nawaf Bin Faysal, presidente del Comitato olimpico dell’Arabia Saudita, sostiene che «l’attività sportiva femminile nel regno non è mai esistita e non vi sono iniziative al riguardo oggi, quindi non verrà sostenuta alcuna partecipazione femminile alle Olimpiadi o ad altre competizioni internazionali».
Una situazione analoga vigeva, fino a non molti anni fa, anche nel Brunei e nel Qatar. Ancora oggi ci sono atlete che possono gareggiare, ma sono costrette a farlo con braccia e gambe coperte da indumenti larghi, quindi in palese situazione di sfavore sul piano della competitività. Alcune accettano di buon grado questa situazione, come elemento caratterizzante della loro cultura e delle loro radici. Altre ci soffrono. Altre ancora non accettano e fuggono altrove.
A me pare che queste siano le vere manifestazioni di sessismo. Nel mondo occidentale ce ne sono altre, alcune striscianti, altre più macroscopiche. Mi stupisce che a ergersi a paladina delle pari opportunità ci sia, fra le altre, anche la tennista Serena Williams. Il suo sport è uno dei pochi in cui uomini e donne sono trattate allo stesso modo. Serena guadagna tanto quanto Roger Federer, i media celebrano le gesta di entrambi in egual misura. Se proprio volessimo pescare nel torbido, dovremmo mettere in evidenza contenuti e modalità linguistiche di queste celebrazioni: di King Roger si mettono in evidenza l’eleganza e la magia del gesto; della Williams, così come della Šarapova e delle altre tenniste, i costumi e le forme.
Il cammino verso le pari opportunità passa inevitabilmente anche sotto il giogo degli stereotipi linguistici di genere. «Corri come una femminuccia», si dice al ragazzino debole e scoordinato; «sei un maschiaccio» è la frase con cui si apostrofa la ragazza che gioca a calcio. Per ora bisogna forzatamente convivere con queste banalissime generalizzazioni. Probabilmente il traguardo è ancora lontano, tuttavia il processo di eguaglianza fra uomo e donna è inarrestabile.
Se c’è un ambito in cui la ribellione degli anni Sessanta ha avuto un effetto permanente, è proprio quello delle pari opportunità, per lo meno sul piano del riconoscimento sociale. Da allora la donna è attiva professionalmente, accede a cariche prestigiose nella politica, nel lavoro e nella cultura, condivide col proprio partner la quotidianità della famiglia, dalla gestione della casa all’educazione dei figli. Rimane invece ancora molto da fare sul piano della parità salariale.
Se tennis e sci alpino, per tornare allo sport, sono le oasi felici dell’uguaglianza di genere, ce ne sono altre in cui si procede molto lentamente. Alcuni giorni fa ho seguito la finale della Champions League femminile fra Lione e Barcellona. Le 22 ragazze in campo hanno proposto gesti tecnici che raramente si vedono sui nostri campi di Super e di Challenge League. Gli indici di fruizione televisiva sono tuttavia nettamente inferiori a quelli della finale maschile fra Liverpool e Tottenham. Perché ci sono dei pregiudizi che ci fanno pensare che il calcio sia ancora un feudo maschile, e che, ad esempio, il nuoto sincronizzato lo sia per le donne, anche se un anno fa la Federazione Internazionale ha introdotto i Campionati mondiali anche per i maschi. E questo per buona pace di Giorgio Minisini, campione italiano della specialità, che si sentiva discriminato, e che per far passare il diritto di praticarla in santa pace, senza essere deriso e trattato da gay, ha dovuto più volte fare a botte.