Le oasi tunisine hanno una lunga, lunghissima storia alle spalle. Sin dalla preistoria hanno ospitato e visto passare numerose civiltà, e sono state un importante trait d’union tra due mondi e due ecosistemi totalmente diversi tra loro: il mar Mediterraneo e il deserto del Sahara. Hanno reso possibili scambi commerciali, ma anche culturali, tra due regioni lontane e i popoli che le abitavano. Sono state degli incubatori fondamentali per saperi, tradizioni e conoscenze, ma anche un vero e proprio rifugio per uomini, piante e animali, in un territorio difficile e inospitale.
La biodiversità che prospera nelle oasi è straordinaria per due motivi: la sua ricchezza (sono state recensite nel 2005 circa 260 varietà solo di palme da dattero, ma ci sono numerose specie di alberi da frutta, piante aromatiche e medicinali, cereali…) e una straordinaria capacità di adattamento a condizioni difficili, alla salinità, alla scarsità d’acqua, ai cambiamenti climatici stessi. Insomma un grande patrimonio e una ricchezza per il futuro. Eppure…
Eppure, nel corso degli anni, il sistema di gestione, basato sull’autodeterminazione comunitaria delle risorse, dell’acqua in primis, è stato pesantemente modificato. Il diritto di accesso gratuito a queste risorse, visto come inalienabile e rispettato da tutti i membri delle comunità locali, ha ceduto il passo a modelli di sfruttamento organizzato e regolato da un apparato amministrativo esterno. L’assimilazione delle oasi ai campi irrigati e metodi di coltivazione intensivi in molti casi hanno causato un rapido esaurimento delle risorse naturali e delle falde acquifere, mentre una gestione orientata solo alla capacità produttiva e alla redditività ha portato con sé una tendenza alla monocoltura e a casi di speculazione terriera. Il sistema oasi ha perso così molte delle sue particolarità e funzioni sociali e culturali, oltre che ambientali ed ecologiche.
Impoverimento delle risorse idriche, desertificazione e aumentata sensibilità ai cambiamenti climatici sono solo alcune delle conseguenze, che ovviamente non ricadono solo sulla natura, con perdita di biodiversità, ma anche sugli uomini. A questo si agganciano fattori socio-economici come l’esodo dalle zone agricole alle città, industrializzazione, degrado ambientale. Una catena pericolosa. Da spezzare.
Distribuite su una superficie di 40’800 ettari, le oasi tunisine oggi sono parte dei quattro governatorati di Gafsa, Tozeur, Kébili e Gabès, che occupano la parte settentrionale del sud del paese. Qui si trova circa il 10% della popolazione. Distinte a seconda della loro posizione geografica in oasi del Sahara (76,8%), litoranee (17,3%) e montane (5,8%), sono invece classificate in base al sistema produttivo in tradizionali e moderne. Per la loro salvaguardia la Banca Mondiale ha dato il proprio sostegno finanziario attraverso il suo programma PROFOR (Program on Forests), in modo da supportare il governo tunisino nel quadro del piano per la Gestione sostenibile degli ecosistemi delle oasi (GDEO – www.oasys.tn e projects.banquemondiale.org/P132157/tn-oases-ecosystems-livelihoods-project;
Ci si muove su diversi piani: quello del recupero e della riabilitazione delle funzioni produttive tradizionali, attraverso la diversificazione delle attività e delle fonti di reddito, il consolidamento e ottimizzazione della filiera dei prodotti tipici, lo sviluppo di filiere innovative e sostenibili. Dando stimolo ad altre attività collaterali come il turismo e il settore agro-alimentare, si punta alla creazione di nuovi posti di lavoro, e quindi anche a una formazione specifica e soprattutto alla realizzazione di un sistema partecipativo aperto e dinamico, con il sostegno a micro-progetti associativi e di cooperazione.
Le oasi tradizionali, in particolare, visto il loro patrimonio storico e culturale, ma anche il valore paesaggistico e ambientale, si candidano naturalmente a ospitare iniziative per un incremento del turismo. Rilancio di attività artigianali di qualità, recupero di materiale etnografico e fotografico che possa confluire in piccoli musei diffusi sul territorio, creazione di attività di pubblico interesse come festival, maratone ed eventi folkloristici, ripristino di vecchie vie e creazione di sentieri escursionistici dedicati all’ecoturismo.
Attualmente, il piano messo in atto, che si concluderà a novembre di quest’anno, ha già avuto ricadute positive per circa 18mila persone sul territorio, di cui circa un terzo donne.
Considerata la posizione delle oasi, a ridosso del Sahara, e l’attuale sfida posta dai cambiamenti climatici, il piano prevede anche delle strategie di adattamento per affrontare e possibilmente mitigare gli effetti di eventi estremi che si fanno sempre più frequenti nella regione. Secondo dati e statistiche, rispetto al periodo di riferimento 1961-1990, si prevede un innalzamento delle temperature di 1,88°C entro il 2030 e di 2,8°C entro il 2050. L’effetto di questa tendenza si sta già facendo sentire con un aumento dell’intensità dell’irraggiamento solare d’estate e l’intensificarsi delle piogge, prevalentemente in autunno. Le inondazioni, sempre più frequenti, specie nelle oasi di montagna, mettono a rischio le infrastrutture e i sistemi produttivi. Nelle oasi costiere, invece, questi cambiamenti, uniti allo sfruttamento intensivo delle falde idriche – che svuotate sono a rischio di infiltrazioni dal mare, con conseguente salinizzazione delle acque – espongono la regione a un maggior rischio di desertificazione.
Nel piano di gestione sostenibile per le oasi, il governo tunisino infine ha predisposto uno studio dell’impatto dei cambiamenti climatici su questo ecosistema tanto importante quanto delicato, con piani d’intervento per rispondere alle emergenze, ma anche per prevenire.
Una sfida, quella per garantire il futuro alle isole nel deserto, che su piccola scala rappresenta ciò che ogni comunità, ogni paese, più o meno grande, non può più ignorare.