Il nostro rapporto con le cose, siano esse automobili o edifici, televisori o computer e così via, è da sempre piuttosto ambiguo. Poiché, fra le forme di alfabetismo, ancora oggi non rientra quella «cultura tecnica» di cui Gilbert Simondon, nel secolo scorso, auspicava la diffusione, la consapevolezza generale sulla «natura» degli oggetti tecnici che usiamo è decisamente scarsa. Nonostante l’estrema raffinatezza dei prodotti tecnologici contemporanei, sia di largo consumo sia industriali, la gran parte di noi ne ignora pressoché completamente i processi interni, i materiali costituenti e via dicendo. In fondo, i dispositivi con cui, per qualche emergenza domestica, mostriamo maggiore familiarità sono tutt’oggi le macchine fondamentali che Guidobaldo del Monte, sulla scia di Erone di Alessandria, indicava, nel XVI secolo, nella leva, il rullo, la puleggia, il cuneo e la vite alle quali potremmo aggiungere ben poco altro, come il computer che, però, esigerebbe una discussione a parte.
Una delle conseguenze più interessanti di tutto questo sta nella netta separazione fra le competenze di chi progetta, produce e offre al mercato i beni tecnologici e le conoscenze di cui disponiamo noi, utenti finali. Naturalmente l’auspicio di Simondon, a fronte della notevolissima complessità dei prodotti contemporanei, era francamente illusoria poiché, per giudicare la qualità di un dispositivo, dovremmo possedere cognizioni in tema di elettrologia ed elettronica, meccanica e chimica e magari di informatica e cibernetica. Di fatto, non ci rimane che una risorsa, peraltro assai potente, cioè la scelta di un prodotto sulla base della sua reputazione, da intendersi come risultato della miriade di esperienze, positive e negative, di cui veniamo a conoscenza per mille vie. A questo, vanno poi aggiunte la concorrenza fra i produttori e l’efficacia della pubblicità.
La separazione fra produttori e consumatori peraltro rimane intatta e, talvolta, si presta a manipolazioni che non sempre vengono scoperte e represse. Ci riferiamo, al «cartello» fra produttori virtualmente in concorrenza fra loro, per dotare i propri prodotti di «obsolescenza programmata». Si tratta di una pratica industriale, tenuta ovviamente segreta, grazie alla quale una classe di prodotti, per esempio alcune parti di un’automobile o di altri dispositivi, vengono progettate per una durata prefissata, superata la quale il proprietario possa essere indotto ad acquistare il nuovo modello messo a punto nel frattempo. Alcune associazioni di imprenditori hanno sollevato dubbi sull’efficacia economica di tale pratica, poiché può rivelarsi un boomerang dato che i consumatori potrebbero orientarsi verso produttori non aderenti al cartello. Ad ogni modo, periodicamente, come è noto, alcuni marchi anche fra i più prestigiosi vengono accusati e condannati per questo genere di comportamento che, fra l’altro, conferisce al termine economico di «beni durevoli» un sapore decisamente ironico.
È chiaro che una maggiore competenza tecnica da parte dei clienti sarebbe comunque auspicabile, tuttavia c’è un aspetto sociologico che non andrebbe trascurato. Ci riferiamo al fatto che, a parte i cartelli, del resto più o meno prontamente repressi dal mercato stesso, sono i progressi tecnico-scientifici in quanto tali a rendere di fatto precario il lyfe cycle di una grande quantità di beni tecnologici.
La crescente diminuzione del tempo che passa fra una scoperta scientifica e la sua applicazione pratica era stata misurata da Eli Ginzberg negli anni Sessanta e va dai 112 anni trascorsi dalla scoperta di alcune proprietà chimiche all’invenzione della fotografia ai soli 2 anni trascorsi dalla scoperta di alcune proprietà fotoelettriche del silicio e l’invenzione delle batterie solari. Oggi la situazione è tale per cui la distanza è spesso addirittura negativa poiché non raramente sono le invenzioni tecniche ad indurre ricerche scientifiche ad hoc.
Quando, nei secoli scorsi, un’azienda realizzava una centrale elettrica o qualcuno ordinava una carrozza oppure una bicicletta, tacitamente si pensava ad una durata illimitata del prodotto. L’acquisto di macchine le più diverse era insomma percepito come un fatto definitivo e la loro durata era un fattore decisivo dato per scontato. Oggi, invece, nessuno, acquistando un’automobile o altri dispositivi tecnologici, immagina di poterne usufruire per un arco temporale senza fine. In effetti, la stessa pubblicità sottolinea l’affidabilità e l’efficacia di un prodotto e non più la sua durata, ponendo soprattutto al centro del messaggio promozionale la novità di ciò che viene pubblicizzato.
Ciò innesca quello che potremmo definire il gioco della novità, al quale tutti partecipiamo volentieri e spesso con entusiasmo. Un’automobile, che era «nuova» due anni prima, viene così definita «vecchia» e lo stare al passo con le novità diviene così una sorta di obbligo interiore che spinge a conseguire nuovi obiettivi. I critici di questo fenomeno, definito consumismo, dimenticano che esso affonda le proprie radici nella natura umana, nella sua tensione costante verso qualcosa di inusitato, cioè nella ricerca perenne di «differenze» e, appunto, novità. Ciò è vero nel caso del mercato dei prodotti tecnologici così come è vero nella scienza e nell’arte. E persino nella moda, cioè in un’attività, gradita ai più, nella quale l’obsolescenza è programmata apertamente e dunque istituzionalizzata, legando la durata dei prodotti alle stagioni e alla loro ovviamente prevedibile successione temporale.
A porre qualche possibile problema è, semmai, la crescente frequenza con cui si manifestano le novità e le conseguenti sostituzioni dei beni tecnologici più disparati. Si può affermare senza tema di smentita che, in un paio di anni, l’uomo contemporaneo tende ad imbattersi e a doversi adattare ad una quantità di innovazioni tecnologiche che, nei tempi passati, richiedevano un paio di decenni per essere accettate e assimilate. Ciò comporta una progressiva revisione della nostra percezione del passato e del futuro come se il primo fosse un territorio da lasciare il più presto possibile e che è legittimo ignorare, e il secondo collassasse nel solo presente, rendendo quanto mai oscuro, per certi versi privo di interesse ma per altri intimorente, ciò che accadrà nel lungo periodo.