Nel segno di Greta

Sindrome di Asperger - Le recenti vicende che hanno visto salire alla ribalta la giovane attivista svedese hanno acceso l’interesse intorno ai disturbi dello spettro autistico
/ 03.06.2019
di Alessandro Zanoli

L’articolo pubblicato tempo fa in cui prendevamo spunto dalla vicenda di Greta Thunberg ha suscitato varie reazioni, del tutto inattese, ma che ci sembrano utili perché ci permettono di avvicinare e comprendere meglio cos’è e come viene affrontata oggi la Sindrome di Asperger. Il primo a contattarci per commentare il nostro scritto è stato Marco (lo chiamiamo così per preservare la sua privacy), il quale, ha messo fortemente in discussione la nostra definizione dell’Asperger quale «malattia». Invitato in redazione per un incontro, Marco ci ha rivelato di essere una persona che vive la condizione di salute chiamata con questo nome. Nel corso della vita ha dovuto affrontare innumerevoli difficoltà dovute al suo modo di pensare e reagire, differente da quello convenzionale, e al suo modo di adattarsi alla realtà sociale.

Oggi, alla soglia della pensione, dice di aver vissuto un momento di sollievo proprio quando l’Asperger gli è stata diagnosticata, qualche anno fa. «La diagnosi è stata come una liberazione, come accendere una luce in una stanza buia, perché tutto il mio vissuto, finalmente, da strano e non convenzionale diventava coerente, comprensibile». In questo senso Marco dice chiaramente di non essere malato, ma semplicemente diverso.

È lui stesso a chiarirci i termini della questione: «La definizione della Sindrome di Asperger ha margini molto ampi. Secondo la descrizione più semplice si parla di un DSA, disturbo dello spettro autistico, senza effetti sul piano comportamentale: dunque, in pratica, quasi impossibile da notare dall’esterno. L’intelligenza non risulta compromessa dal disturbo in sé. Anzi, spesso chi è affetto dall’Asperger mostra un quadro cognitivo altamente sviluppato, anche se magari in modo molto settoriale». Marco, ad esempio, è un appassionato di astrofisica ed è interessatissimo in particolare alle tecnologie che permettono l’osservazione del cielo.

Questo gli ha fatto avvicinare campi di studio come l’elettronica e l’informatica, ma gli ha dato anche la possibilità di ottenere il brevetto di volo come pilota di linea. Per tutta la vita però i suoi interessi sono stati accompagnati da una difficoltà di gestire i rapporti sociali e le emozioni. «Ci sono elementi diagnostici che sono molto evidenti, come la fuga dal contatto visivo. Studi scientifici hanno dimostrato che i bambini autistici fin da piccolissimi si concentrano sugli oggetti circostanti e sui contesti d’ambiente, piuttosto che sui visi delle persone». Una diagnosi precoce, secondo Marco e la sua esperienza personale, è la cosa più importante: in tal modo l’approccio educativo con il bambino potrà focalizzarsi sulla modalità di apprendimento più adatta a lui, aiutandolo a imparare e a conoscere la sua particolarità di funzionamento.

Marco oggi sembra ben cosciente della sua situazione e in grado di gestire la sua vita: tra i vari impegni che si è assunto c’è la gestione del GAT - Gruppo Asperger Ticino, che vuole fungere da punto di riferimento per le persone toccate da questa sindrome e per quelli che sono in relazione diretta con loro, creando incontri regolari e informali di discussione e di contatto. L’idea è quella di condividere le proprie esperienze e mettere in comune le strategie di adattamento e, oltre a questo, vivere momenti conviviali (per informazione si veda il profilo Facebook del gruppo Asperger Svizzera Italiana e il sito www.autismo.ch).

Un’altra testimonianza viene da un’amica e compagna di scuola che non sentivamo da tempo. Prendendo spunto dal nostro articolo ha deciso di contattarci. E subito ribadisce anche lei che il termine «malattia» non è adatto a definire l’Asperger. «Non è una malattia perché non può guarire: i bambini malati si possono curare e magari possono migliorare, ma con questo disturbo no. Con loro sei tu che devi pórti in un certo modo e devi solo riuscire a gestire la situazione. Gli Asperger si distinguono dagli “autistici classici” (di fatto l’Asperger viene definita una forma leggera di autismo) poiché, siccome spesso molto intelligenti, attirano maggiormente l’attenzione e di conseguenza sono oggetto di studi, a discapito degli altri, che sono più problematici da gestire».

Dunque ecco la sua esperienza: il primo figlio della nostra amica aveva manifestato fin da piccolissimo gravi difficoltà di comportamento e di adattamento alle situazioni della vita di tutti i giorni. I momenti più critici erano stati naturalmente quelli dell’inserimento all’asilo e poi a scuola. «Non veniva accettato, aveva grossi problemi con le maestre, che non riuscivano a gestirlo nella pratica quotidiana. Andava soggetto ad accessi aggressivi. Le crisi erano date dal fatto che né lui capiva cosa le maestre volevano da lui, né lui era capace di dire che non era in grado di fare quello che gli veniva chiesto: ad esempio allacciarsi i bottoni del grembiulino o pulirsi il naso da solo con un fazzoletto. Poi, finalmente, la diagnosi del suo disturbo è arrivata, durante la terza elementare».

Nel corso dell’iter scolastico, alle difficoltà di inserimento si aggiungevano anche quelle legate alle sue varie difficoltà, che venivano prese in giro dai compagni di scuola. Al tempo delle medie gli venne misurato il QI (Quoziente Intellettivo), che risultò molto alto. Con grandi difficoltà e con la costante attenzione e sostegno dei genitori, il ragazzo è cresciuto, è riuscito a ottenere la maturità in una scuola cantonale e poi a laurearsi al Politecnico di Zurigo. E la prossima grande sfida rappresenta il suo inserimento nel mondo del lavoro. «I suoi interessi sono ipertecnologici. Adesso sa tutto su vulcani e laghi sotterranei dell’America Latina per i quali scrive articoli in Wikipedia (della quale è, tra l’altro, uno dei moderatori, così come del sito Tv Tropes). Vive in questo suo mondo che io faccio fatica ad accettare. Ma d’altro canto è incapace di compiere cose molte semplici che per noi sono normali. Non si rende conto di aver fame, ad esempio, ed è quasi impossibile insegnargli a cucinare qualcosa. Immerso nel suo mondo, non sa prendersi cura di sé e occorre sempre renderlo attento al mondo circostante».

L’esperienza dell’amica è riassunta in una conclusione segnata dalla saggezza: «Evidentemente la relazione con lui non è facile, perché non ci sono quasi mai momenti di contatto affettivo. È una costante sfida intellettuale. Alla fine mio marito ed io, come coppia, abbiamo imparato molto: ci siamo adattati, abbiamo seguito un percorso terapeutico. Addirittura la mia terapeuta mi dice che se volessimo potremmo occuparci di un altro giovane Asperger (nel senso di seguirlo e aiutare la famiglia d’origine), viste le capacità che abbiamo maturato. Ma direi che non è il caso».

Sulla scorta di un consiglio di Marco, abbiamo preso contatto, infine, con una specialista che opera nel settore, sia dal punto di vista clinico che da quello della ricerca sul tema dell’autismo. Emmanuelle Rossini è un’ergoterapista, che ha aperto un suo studio privato a Roveredo (GR) e che nel contempo lavora alla Supsi, nel Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale.

Parlando con lei ricostruiamo la rete ufficiale di coloro che si occupano di autismo in Ticino: «Diverse istituzioni fanno parte della “galassia” collegata con la diagnosi di autismo: c’è ad esempio l’Unità UNIS (Unità operativa multidisciplinare dell’OSC, istituita per l’intervento diretto a bambini e ragazzi con disturbi dello spettro dell’autismo), il Servizio di neuropediatria dell’EOC con il dottor Ramelli, la fondazione ARES (Autismo, Risorse e Sviluppo) con il suo Centro Diagnosi e Intervento Psico Educativo, oltre all’Associazione asi (Autismo Svizzera Italiana). Uno dei punti focali di questa rete è quello di giungere il più presto possibile ad una diagnosi precisa per i bambini e le bambine che presentano un quadro clinico riconducibile all’autismo».

Per Rossini, anche il lavoro che si sta compiendo nella scuola pubblica per accogliere e sostenere i bambini con queste caratteristiche dello sviluppo, è per certi versi molto incoraggiante. La figura dell’OPI (Operatore per l’inclusione) dà risultati concreti. Fondamentale per lei è proprio che si miri ad ottenere il massimo livello di inclusione sociale possibile. «Non si tratta di isolare queste persone, ma di permettere a chi ha un diverso modo di percepire e di vivere la realtà di sentirsi capiti e accettati. A volte, durante gli incontri che teniamo con chi vive la condizione di Asperger, ci rendiamo conto che il loro punto di vista è coerente e segue una logica perfetta. La nostra percezione ed interpretazione della realtà è solo diversa dalla loro e, dal loro punto di vista, può risultare completamente fuori luogo».

E la riflessione sulla necessità dell’inclusione sociale di chi vive la condizione dell’Asperger solleva anche problematiche collaterali molto importanti: «C’è da considerare anche una questione “di genere” non irrilevante. A livello sociale, nell’uno per cento circa della popolazione che rientra nel quadro dell’autismo, gli uomini sono i più diagnosticati. Questo perché le loro manifestazioni sono maggiormente visibili o si scontrano con l’immagine di performance sociale che è l’aspettativa verso il genere maschile. Le donne Asperger, invece, hanno tratti di carattere più fini, riservati, introversi e sono quindi più socialmente accettabili. Le ricerche dimostrano che le ragazze introverse sono facilmente etichettate come timide e non si cerca di andare oltre. Nella loro condizione è più difficile riconoscere il quadro clinico specifico, e in tutto il mondo questo aspetto è un problema. Il Ticino non esula da questa triste realtà che implica dei rischi importanti, in particolar modo di violenze, abusi o di sviluppo di comorbidità psichiatriche».

Per chiudere (ma non concludere) la discussione, secondo Emmanuelle Rossini il concetto chiave che deve essere mantenuto al centro dell’attenzione è proprio l’inclusione. In questo senso la definizione di Asperger come una malattia è sbagliata perché è fuorviante. Ogni persona deve poter funzionare in modo consono al suo modo di essere. «Per valutare ogni situazione è importante sempre chiedere all’altro, inteso come persona e famiglia, “ma tu come stai?”. Partendo da questa risposta, unica, è possibile definire il modo di intervento, senza schemi preconcetti, né etichette precostituite. Perché dobbiamo ricordarci che non è la persona a portare un handicap, ma è la società e i contesti di vita che la mettono, o meno, in situazione di handicap».