«Natale non è più quello di una volta, per fortuna, siamo figli del nostro tempo. Poi non so quanto valga l’alone di bellezza e di serenità del Natale. Un’anziana mi diceva che per lei il Natale è una tragedia, perché non ha più nessuno, è sola. Insomma, è una festa controversa, nel cuore degli uomini».
44 anni, da 22 prete, ma soprattutto frate francescano, guardiano del Convento di Santa Maria, il convento del Bigorio, in Capriasca. È fra Michele Ravetta che racconta, davanti alla finestra che apre lo sguardo su uno stupendo larghissimo orizzonte, dai Denti della Vecchia al Monte Lema, con tutto il Luganese davanti: uno spettacolo incantevole in una giornata serena di fine autunno.
La storia, qui, ha radici profonde. Nel 1535, periodo di contrasti cristiani a seguito della Riforma luterana, a dieci anni dalla riforma cappuccina, il francescano Padre Pacifico Carli costruisce la sua celletta di eremita di fianco alla chiesetta edificata nell’anno Mille sulle pendici del Monte Bigorio, a 728 metri di altitudine. Nel corso dei secoli il Convento si ingrandisce, la struttura attuale risale alla seconda metà del Settecento.
Dopo il Concilio vaticano II, il Convento si apre alla società e al paese, al pubblico, agli uomini e, per la prima volta, alle donne. L’intuizione è di Padre Callisto, un indimenticabile riferimento spirituale in Ticino, non solo per i cattolici, ma la realizzazione del progetto è di Fra Roberto, classe 1933, che dal 1966 diventa il custode responsabile ed è tuttora attivo al Bigorio. Roberto Pasotti è un artista che nel corso degli ultimi cinquant’anni ha garantito lo sviluppo del Convento come centro culturale e religioso, arricchendolo di opere d’arte. La sua attività pittorica coniuga il talento artistico alla tradizione teologica e spirituale.
«Lo scopo principale del Convento una volta era la formazione biblica – ci dice Fra Michele – oggi offriamo molto, forse troppo. Siamo aperti ai manager, alle aziende e alle ditte, che potrebbero anche andare nelle sale degli alberghi, ma qui trovano la tranquillità e l’accoglienza dei frati. Ci siamo adeguati ai tempi. Anche la nostra organizzazione è mutata: ci siamo distaccati dai cappuccini svizzeri per affiliarci alla Provincia di San Carlo in Lombardia. In Svizzera ci si sta lentamente estinguendo, negli anni Sessanta i cappuccini erano 820, ora sono 130. Così, dalla Lombardia sono arrivati quattro frati e ne arriveranno altri due».
Come è nata la scelta di intraprendere questa strada?La mia era una famiglia normale, cattolica, ma non bigotta. I miei genitori lavoravano al collegio Papio di Ascona, quindi c’era un gran via vai di preti per casa che mi hanno influenzato. Ma mia madre non era entusiasta, sulle prime, della mia scelta. Quando ricevetti la lettera dal vescovo Corecco che mi ammetteva in seminario, mi sono accorto che la lettera era già stata aperta. Era stata lei, mia madre, curiosa e ansiosa…In seminario incontrai due cappuccini e vidi in loro una luce diversa. Sono contento di non essere un prete diocesano, tra frati c’è un altro linguaggio, siamo tutti fratelli, non c’è la gerarchia della Chiesa.
Qual è il suo giudizio sulla Chiesa di oggi?Ho vissuto ormai 22 anni di Chiesa. Potremmo definirlo un cantiere aperto, ma le istituzioni sono conservatrici, c’è una storia di duemila anni che non si può modificare facilmente. La Chiesa è ancora legata alla gerarchia, ai ruoli, ai titoli, invece dobbiamo ricordarci che siamo nati da una barca di pescatori. Bisogna tornare fuori, fra la gente, sulle piazze, negli oratori, nelle case. Ci siamo ritirati nelle canoniche e nei conventi. La gente non viene più da noi, dobbiamo andare noi da loro e soprattutto marcare presenza dove c’è sofferenza, dobbiamo tornare a fare i curati, curare le anime e per questo bisogna avere passione, passione per le persone.
Come vede la presenza femminile nella Chiesa?La Chiesa è femminile, la Chiesa è madre. Accanto ai grandi santi ci sono anche le grandi sante. Credo che se le donne non possono, per ora, accedere al sacerdozio, ciò non toglie nulla alla loro specificità. Papa Francesco sta facendo scelte coraggiose mettendo a capo di certi gruppi di lavoro delle donne. Vedrei positivamente donne diacono, in ruoli di servizio, come le nostre mamme a casa. Non mi straccio le vesti per il sacerdozio femminile. Che dicano messa o che non la dicano, non fa poi grande differenza. Mia nonna diceva che a dir messa sono capaci tutti gli asini.
In Ticino ha fatto discutere la questione dell’ora di religione. Come la vede?Credo che nel pacchetto educativo della scuola, come mettiamo la ginnastica, ci debba stare anche la religione. Siamo una regione con una forte impronta cattolica. Non dobbiamo avere paura di mettere nel programma scolastico il cattolicesimo, con un’apertura per il mondo spirituale e religioso che ci sta attorno perché ormai il Ticino è multiculturale. Sono però dell’opinione che questa lezione debba farla chi è capace, non può essere un non credente, perché bisogna anche trasmettere una passione e uno stile di vita. Se i preti non sono in grado di farlo, siano almeno dei catechisti formati. Quando insegnavo alle elementari, in Leventina, facevo sempre riferimento al mondo che ci sta attorno, presentando i rappresentanti delle altre religioni come amici di Gesù, per far passare un messaggio unificante e non divisorio.
Fra Michele si occupa del Convento del Bigorio e poi lavora al Penitenziario cantonale come cappellano e alla Casa Serena di Lugano, la casa anziani della città, al reparto cure palliative, per offrire assistenza spirituale e religiosa. Fino alla scorsa estate ha assistito i malati terminali dell’Istituto oncologico cantonale.
Lei ha un rapporto di vicinanza con la morte.Se la morte ti ha già sfiorato, se hai già seppellito qualcuno di casa tua, conosci il gusto amaro della morte, puoi essere più empatico e più vero. Se la morte riesci ad accettarla, in qualche modo, ti farà meno paura. Francesco l’ha chiamata sorella, è una di noi, di casa nostra, a un certo punto incrocia il nostro cammino. Apparentemente vince lei, ma per chi crede è il trampolino di lancio verso il Creatore. Una signora in casa per anziani mi diceva: Padre non si va in Paradiso da vivi… Aveva ragione. Se vogliamo vedere Dio, in cui crediamo, dobbiamo morire e non deve essere una cosa triste.
Lei pensa che la fede faciliti il rapporto con la morte?Sì, ma quando si è sul letto di morte le cose cambiano. Ho visto molti credenti timorosi davanti alla morte. Enzo Bianchi, monaco laico fondatore della Comunità di Bose, scrive che nel regno dei morti non vuole essere solo con Dio, vuole stare con le persone che ha amato. Forse più di Dio sono i nostri cari che ci consolano, andiamo con loro, a far festa con loro. Davanti alla morte siamo titubanti perché non ne sappiamo un granché, ma non dovremmo farci troppe domande.
Che rapporto ha con i non credenti?I non credenti, chi non si riconosce in una religione, sono le persone che quasi quasi preferisco, perché sono libere dai preconcetti e dagli schemi mentali. Quei pochi veramente non credenti che ho conosciuto li ho trovati estremamente sereni, senza la connotazione pesante e umiliante dell’angoscia della morte.
Fra Michele è cappellano al carcere cantonale. Il carcere è come la malattia, dice, rianima lo spirito religioso. Il cappellano offre un legame con la realtà, fa da ponte con il mondo esterno e la segretezza del prete permette al detenuto di aprirsi in modo totalmente confidenziale. È una presenza importante, perché la perdita della libertà è una sorte di privazione anche interiore dell’anima. Quindi il cappellano può arginare la disperazione, la vergogna, la paura, il senso di fallimento di tanti detenuti.
A Natale i frati del Bigorio allestiscono il presepe, un simbolo che risale a Francesco d’Assisi ai primi anni del Duecento. Intanto, per la prima volta, la Madonnina del Bigorio, la Madonna col Bambino posta sopra l’altare maggiore della chiesa di Santa Maria, è stata spostata temporaneamente alla Pinacoteca Züst di Rancate. Fa bella figura nell’ambito della mostra dedicata al «Rinascimento nelle terre ticinesi». È infatti un’opera attribuita a pittori fiamminghi dell’inizio del Cinquecento, giunta al Bigorio nel 1565.
«In occasione del Natale, – racconta Fra Michele – vorrei spezzare una lancia in favore dei regali. È un gesto d’amore verso qualcuno che ti è caro, il dono ha ancora senso. Il Natale è un’occasione per stare insieme e, per noi preti, per far passare un messaggio di accoglienza e non di giudizio. È importante anche curare la liturgia, preparare quei segni che contraddistinguono il Natale, come il presepio. Dobbiamo fare del momento liturgico un elemento famigliare, per i più deboli, gli anziani, gli ammalati, i bambini. Far capire che il Natale non è una fiaba, è la storia di una nascita, di qualcosa che prende vita. Non perderei troppo tempo a parlare di Gesù, con tutto il rispetto: parliamo di noi, perché ognuno di noi ha il proprio Natale, ogni compleanno ce lo ricorda».
Per molte famiglie, disunite o separate, la festa natalizia non è sempre serena.
Una volta, i nostri genitori e i nostri nonni non potevano immaginarsi una vita diversa da quella che avevano, si stava insieme un po’ per amore e un po’ per dovere. Natale va vissuto in verità, per quello che siamo veramente, deve essere il momento dell’essenzialità. Dobbiamo guardare alla capanna di Betlemme, perché tutto è nato lì, nella precarietà di una famiglia un po’ disgraziata. Maria rimane incinta e non è nemmeno sposata, non è che Dio abbia fatto le cose secondo canone, ma Dio è più grande degli uomini, delle leggi e della morale. Anche la famiglia di Gesù era un po’ irregolare, eppure ne parliamo ancora oggi.