Difficile descrivere, senza fronzoli o banalità, la vita professionale del chirurgo ticinese Sebastiano Martinoli. Medico, pioniere della sensibilizzazione al dono d’organi in Ticino, per oltre un ventennio primario e poi capo dipartimento del reparto di chirurgia dell’Ospedale Regionale di Lugano, professore all’Università di Basilea, a lungo vice presidente di Swisstransplant, membro dell’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche e, infine, medico accreditato per la chirurgia e la traumatologia alla Clinica di Moncucco di Lugano. Oggi «pensionato», come egli stesso si definisce, lo abbiamo incontrato per ripercorrere insieme i suoi anni di chirurgo, in cui si è sempre distinto per la sua profonda considerazione della persona-paziente cui si trovava dinanzi.
Professor Martinoli, potremmo dire che la professione del medico e del chirurgo sia stata una vera e propria sua vocazione?
Ho seguito le orme di mio padre, ammirandone inventiva, poliedricità e subendone il grande fascino. Era primario all’Ospedale di Acquarossa: un mito per noi figli. Ottimo fisico autodidatta (aveva ammodernato e gestiva una centrale elettrica a Corzoneso), era medico polivalente e inventivo, chiamato a gestire le notevoli patologie dei bleniesi che erano coriacei e andavano dal medico solo quando i problemi di salute erano complessi. Fu il primo in Ticino a impiantare chiodi femorali e mi portava sempre con sé, a pesca come all’ospedale che si trovava a cento metri da casa nostra. Terminati gli studi, le mie buone note mi hanno aperto l’offerta di un posto come assistente a Basilea, dai professori Rossetti (chirurgo e amico di mio padre) e Allgöwer, suo capo e grandissimo chirurgo che faceva praticare i suoi allievi in tutte le specialità. Per questo ho ricevuto una formazione molto «rotonda», non esageratamente specialistica, in cui la polivalenza era un valore e permetteva di ottenere ampia esperienza.
Lei ha conseguito titoli in medicina intensiva, chirurgia toracica generale, traumatologica e viscerale; oggi un chirurgo si misura con la sua «super specializzazione»: frammentazione o migliore chirurgia perché più specifica?
La specializzazione è certamente buona cosa. Pensiamo, ad esempio, al ginocchio infortunato di Lara Gut, atleta che necessita le cure super-specialistiche eseguite da un ortopedico con grande esperienza di traumatologia dello sport. Una delle sfide più difficili per il chirurgo resta però la regia delle cure a un politraumatizzato, perché comporta conoscenze di tutti i colori della traumatologia: shock, cure intensive, chirurgia viscerale, ossa rotte e quant’altro. È importante che il chirurgo generalista mantenga la gestione del paziente traumatizzato. Essenziale è la sua conoscenza globale che gli permette di delegare le cure di una lesione allo specialista adeguato per le specifiche cure interventistiche.
Lei ha vissuto e partecipato a una rivoluzione epocale della chirurgia, cosa è cambiato e quanto ha pesato nella relazione con il paziente?
Il mio stile nei rapporti con i pazienti non è mai mutato: da quando ho iniziato a quando ho terminato, li conoscevo tutti per nome. Certo: allora i capi-clinica e gli assistenti erano pochi e lavoravano tantissimo acquisendo rapidamente esperienze. Oggi, ad esempio, all’EOC si sono assunti moltissimi medici: 160 medici in più negli ultimi cinque anni. Tanto tempo viene usato per la trasmissione delle conoscenze che si debbono avere di ciascun paziente. La frammentazione dei curanti può far incappare in errori di delega. La capacità di formare nuovi chirurghi viene meno a causa della diluizione temporale delle esperienze. Allo stesso tempo, ho avuto la fortuna di vivere il progresso della chirurgia sempre meno invasiva che ha portato parecchie consapevolezze: abbiamo compreso che non sempre «grande taglio» significa «buon chirurgo». La tecnologia oggi ci permette di intervenire in modo mini invasivo su molteplici fronti.
Di questa evoluzione si ricorda qualche aneddoto?
Nel 1982 ho iniziato con le artroscopie del ginocchio; nell’85 ho operato la prima cistifellea con laparoscopia e piccoli tagli; negli anni ’89 / ’90 asportavamo il timo (ndr: ghiandola retrosternale) e parti di polmone sempre in tecnica mini-invasiva. La fine della guerra del Vietnam ci è venuta in aiuto, casualmente, attraverso l’esubero di piccole telecamere che servivano agli americani per pilotare le bombe. A noi chirurghi divennero utili per le antesignane artroscopie. In seguito la ditta Zeiss si è appropriata di quella tecnologia allora rudimentale migliorandone la risoluzione ottica e producendo telecamere molto più performanti. Ma se la nostra vita media è aumentata è anche perché il nostro stile di vita è nettamente migliorato. Grazie a ciò, e semplicemente con un po’ di «acqua e sapone» in più, si campa molto più a lungo, e non certo solo per merito della medicina.
Lei è stato segretario e vice presidente di Swisstransplant, cosa pensa della scienza dei trapianti e della donazione d’organi per cui il canton Ticino si è sempre distinto.
Quando nell’81 sono giunto in Ticino, i nostri pazienti con insufficienza renale erano iscritti nella lista d’attesa per un trapianto a Zurigo ma non c’erano doni d’organo dal Ticino. La mancanza d’organi per rapporto ai bisogni era già un grande problema. In ospedale vedevamo diversi casi in cui una persona poteva essere potenziale donatore, ma non eravamo pronti né preparati a saper chiedere, ad accompagnare la famiglia, né a prelevare gli organi. Allora ho cominciato a organizzare la gestione umana del donatore, insegnando ai curanti l’approccio adeguato con i parenti. Ci siamo equipaggiati per le operazioni di prelievo, inizialmente solo per i reni, in seguito per fegato, cuore e così via. Oggi sono le équipe specializzate d’Oltre Gottardo a giungere da noi per i prelievi. In Ticino il numero di donatori resta stabile, ma i pazienti in attesa di trapianto aumentano. Prevenzione e tecnologia hanno fatto progressi e, per fortuna, ci sono meno persone morte cerebralmente e potenziali donatrici. Il futuro? Potrebbe andare nella direzione di organi artificiali, creati con tecniche di «taglia e cuci» a livello dei genomi delle cellule, come ad esempio per quelle del pancreas che si possono indurre a produrre insulina. Un’ingegneria genetica che non sarà a grandi costi, ma che ci permetterà di salvare ancora più persone.
Oggi, «chirurgo pensionato», dove la condurrà questa condizione?
Leggo parecchio, seguo alcune fondazioni, con l’aspirazione di restare «rotondo» e aperto al mondo. Alla mia professione ho dato molto e da essa ho ricevuto tanto: non ho rimpianti. La stanchezza si fa sentire un po’ di più, ma vuol mettere il privilegio di leggere così tanti libri, ora che finalmente ne ho il tempo?