Ha sempre voluto fare la criminologa oppure la ballerina; ha finito per fare tutte e due. Laura Baldi-Pedevilla ha un pancione rotondo e alto, va a Castione e a Lugano tutte le settimane dove incontra mamme (e un papà e qualche nonno) con i loro bambini piccolissimi e insieme danzano. La mamma propone dei movimenti fluidi, tenendo il figlio in braccio, sulle gambe o in terra, il bimbo risponde o sta fermo, si girano in giro l’un l’altro, volteggiano insieme, incrociano braccia e gambe senza mai smettere, con armonia e tanti diversi tipi di musica, classica e moderna. Non ci sono passi o gesti predefiniti, è un dialogo che si intavola ogni volta in modo diverso. «Sono movimenti magici che non cerchi ma che ti arrivano», spiega lei. Nei momenti difficili, sovente ha smesso di parlare e ha iniziato a ballare con sua figlia e questo è valso più di mille parole. Ora aspetta qualcun altro che bussa alla sua pancia ogni settimana un po’ più forte.
Ci mettiamo sul suo divano del suo luminoso appartamento di Giubiasco e chiacchieriamo. Della sua passione per i movimenti del corpo ma soprattutto del suo mestiere: Laura è criminologa.
Dopo il Liceo si è iscritta a Psicologia a Friburgo, poi ha conseguito il Master in Criminologia. Si è ritrovata con studenti che venivano da Giurisprudenza, Psicologia, Scienze sociali. Ognuno aveva da recuperare qualche materia e proseguire il corso di studi per fare il giro dei temi che interessano la criminologia: diritto penale, scienze forensi, medicina legale, psicologia, statistica e metodologia oltre che i temi della violenza domestica, la delinquenza giovanile e di altre devianze. L’oggetto degli studi è il comportamento antisociale e la reazione sociale a tale comportamento; si interessa tanto alla delinquenza quanto alle vittime, ai delitti e alle sanzioni o alle altre misure penali. Lo studio scientifico della devianza permetto lo sviluppo di politiche criminali pertinenti e programmi di prevenzione.
Durante gli studi Laura ha fatto varie esperienze in carcere, ha studiato gli omicidi di coppia (che costituiscono i due terzi degli omicidi in Svizzera), rivalutando anche certe misure di prevenzione sulla violenza domestica e si è occupata di analisi della delinquenza giovanile. Con gli studi che lei ha fatto, si può continuare a lavorare in tribunale, negli istituti di detenzione, continuare la carriera in Legge fino a diventare giudice, fare l’assistente sociale o seguire altri sbocchi. È molto più facile trovare lavoro negli altri cantoni svizzeri che rispetto al Ticino sfruttano moltissimo questa figura specializzata impiegandola in istituti diversi, dalle carceri ai tribunali ai foyer e così via.
Nel nostro cantone c’è una scuola per diventare ispettore di polizia e forse Laura un giorno la farà: le piacerebbe seguire le indagini sui crimini. Quello che invece ha creato alla fine degli studi insieme a una collega è un servizio di consulenza criminologica in Ticino, per valutare il rischio di recidiva nelle persone condannate per crimine e essere d’aiuto nei casi di omicidi, reati su minori, violenze gravi. Hanno svolto un’indagine di terreno nel 2011 e ha iniziato a collaborare con le autorità cantonali ticinesi, in particolare con l’Ufficio dei Giudici dei Provvedimenti Coercitivi, occupandosi di valutazioni di pericolosità in ambito d’esecuzione pena. Laura e la sua collega Claudia Crivelli Pinotti possono infatti delineare un quadro criminologico globale di una persona e della situazione in cui essa si trova, in modo da sostenere così le decisioni inerenti l’esecuzione della pena ed eventuali alleggerimenti di regime (congedi, sezione aperta, libertà condizionale, ecc.). In pratica la figura del criminologo è quella che tiene insieme tutte le valutazioni dell’assistente sociale, dello psicologo, del medico, del poliziotto, della guardia carceraria e può quindi offrire al giudice una visione totale della persona e una perizia sul rischio di recidiva.
«Il nostro mestiere è affascinante ma difficile», spiega Laura, «perché ci si può sempre sbagliare. Si ha a che fare con persone, per cui un fattore di imprevedibilità è presente, ma il rischio zero non ce l’ha nessuno: potenzialmente tutti potremmo commettere un crimine anche se per fortuna pochi elementi della società finiscono per farlo. Ma penso che ognuno abbia diritto a essere valutato regolarmente per vedere di cosa ha bisogno, cosa gli si può offrire affinché egli non ripeta il suo reato». Ci sono strumenti e test specifici che valutano i fattori strutturali, quelli su cui non si può influire (età, malattie, passato) e quelli invece variabili come le dipendenze, la rete familiare, le opportunità di reinserirsi nella società una volta scontata la pena. Sono valutazioni validate e scientifiche che vanno sempre analizzate e contestualizzate da uno specialista (questo aiuta a ridurre il margine d’errore di valutazione).
«Anche le cose più orribili dell’uomo fanno parte dell’essere umano», mi dice ancora la bella mamma dai riccioli d’oro che balla e riflette sulle ombre del mondo. «Cerco sempre di mettere in avanti la mia curiosità e la mia riflessione piuttosto che i miei pregiudizi, che sono inevitabili ma che poi si dileguano quando mi trovo di fronte a una persona in carne e ossa». Quando facevano i colloqui a persone in carcere, Claudia si occupava di fare domande e di annotare le risposte, mentre Laura cercava di leggere il linguaggio del corpo, perché, come dicevamo all’inizio a proposito della danza, non sempre la parola esaudisce tutto quello che il corpo vuole dire. «Il carcere è una microsocietà dove si concentrano certi tipi di profili; le emozioni sono ingigantite, perché tutto è più piccolo e ravvicinato. Mancano le libertà per noi scontate come uscire quando vogliamo, lavarci quando vogliamo, mangiare quello che ci pare. I detenuti devono imparare a proteggersi, a convivere in spazi ristretti. Certo, in Svizzera siamo messi bene, perché le condizioni sono buone, il sistema prevede che sei innocente fino a prova contraria, c’è una rigorosa ricerca delle prove, non vige la pena di morte. Però per me è strano che si trovi così lontano dalla città. Io penso che quel microcosmo ci appartenga, che sia parte di noi, della nostra società e che in qualche modo ce lo dobbiamo tenere».