Chi non ricorda l’oca Martina? Quella il cui uovo fu covato dall’etologo e zoologo viennese Konrad Lorenz? Fu proprio lui il primo essere vivente che Martina vide alla nascita, e per questo lo riconobbe a tutti gli effetti come sua «mamma oca». Con la sua passione per l’osservazione di anatre e oche, e grazie anche a Martina, Lorenz formulò la teoria dell’imprinting: se un piccolo riceve le cure e l’affetto di una madre diversa da quella biologica, riconoscerà quest’ultima come la sua vera mamma, anche quando questa appartenga a una specie differente dalla sua.
«Ho ricevuto Orlando e Olivia in una scatola, avevano cinque o sei settimane di vita al massimo», racconta Manuela Vanetti di Iragna. Orlando e Olivia sono due oche che lei e il suo compagno hanno deciso di adottare «a scatola chiusa», è proprio il caso di dirlo, perché – ci racconta – l’idea di allevare due oche è nata in modo assolutamente casuale: «Avevamo le galline, mai avremmo pensato di tenere due oche delle quali peraltro non sapevamo assolutamente niente». La premessa di Manuela, mentre la guardiamo giocare con Orlando, è chiara: «Non consiglierei mai a nessuno di adottare un’oca così, senza essersi dapprima informato per bene su ogni aspetto che riguarda la convivenza con un’oca e soprattutto sui suoi bisogni».
Ma tant’è, data la nostra grande curiosità e senza smentire il detto popolare secondo cui «ognuno piglia le proprie oche per cigni», Manuela accetta di raccontarci della sua esperienza con questo animale da cortile proverbialmente empatico con l’essere umano e molto territoriale. Orlando non ci perde d’occhio un momento, anzi, talvolta pare ci osservi un po’ perplesso.
La compagna di Orlando, Olivia, è morta da qualche tempo a causa di una malattia che l’ha vinta, malgrado gli sforzi suoi e del veterinario. Orlando oggi ha due anni: «Come presumo sia per tutte le oche, anche lui ha una personalità molto definita e spiccata; se Olivia si era rivelata molto dolce, Orlando era già Orlando e con il tempo e la morte della sua compagna è peggiorato». La nostra interlocutrice parla della sua oca con malcelato affetto, ma non lesina di raccontare ogni aspetto, anche quelli più bizzarri del suo Orlando, tornando spesso sul concetto di responsabilità del proprietario di animali, soprattutto quando si imbarca nell’esperienza di ospitarne di così particolari come un’oca: «Quando sono arrivati Olivia e Orlando ho subito capito di dovermi documentare su ogni aspetto della loro vita; non conoscevo nessuno che avesse delle oche come animali da compagnia. L’ho fatto leggendo libri, consultando internet, parlando con il veterinario…».
Proprio il veterinario le dà un buon aiuto, «soprattutto per quanto riguarda l’alimentazione, perché le oche non mangiano come le galline, anzi!, o almeno Orlando non mangia di tutto, anche se gli piace da morire l’uva». Aneddoti a parte, Manuela comprende ben presto la necessità di Orlando di avere a disposizione acqua per il bagno: «Passa ore e ore nella conchiglia che fa da vasca d’acqua, starnazzando». E gli schiamazzi sono da tenere in conto. «Dove sono femmine e oche, non vi sono parole poche», dice il saggio, e sotto questo aspetto Manuela si dice fortunata: «Per fortuna, il mio vicino di casa ha subito tollerato gli schiamazzi di Olivia e Orlando». Ancora oggi, racconta: «Non è necessario che qualcuno suoni il campanello: lui fa un’ottima guardia e segnala chi si avvicina alla casa».
Non erano d’altronde le oche del Campidoglio che ne salvarono le sorti al pari di ottimi cani da guardia? A un anno dall’adattamento, Manuela ha dovuto far fronte non solo alla malattia di Olivia, ma siccome le oche sono proverbialmente monogame, era fondato il timore che Orlando si lasciasse morire di dolore per la perdita della compagna con cui, ci viene detto, viveva in simbiosi, e che ha amorevolmente curato fino all’ultimo: «Quando Olivia non si alzava più, Orlando andava di fronte a lei e la chiamava, cercando di farla uscire dalla sua cuccia». La dedizione all’oca sopravvissuta è stata molto grande: «Sono stata parecchio con lui, per cercare di occupare il suo tempo, ho messo uno specchio ma era peggio perché non si staccava più da quell’immagine riflessa che forse gli ricordava Olivia, odiava le galline, i gatti, tutto e tutti».
Anche a questo punto del racconto torniamo sul pensiero iniziale di Manuela, che sconsiglia di prendere un’oca senza essersi resi conto di tutti questi aspetti, del tempo e delle energie che poi bisogna assicurare per farle vivere bene: «In questi due anni, talvolta mi sono chiesta cosa fosse Orlando per me: non è un cane, non mi segue alla stessa stregua, ma mi considera e sta con me anche in modo inatteso, ad esempio riconosce il rumore dell’automobile al mio rientro dal lavoro e lo fa starnazzando».
Certo, gli vuole molto bene, ma ribadisce che bisogna essere coscienti del fatto che la vita media di un’oca è di circa dieci anni, durante i quali bisogna accettarne la natura e occuparsene parecchio: «Orlando è molto impegnativo, non si difende dalla volpe e necessita dunque di essere chiuso nel suo recinto ogni sera (altro che vacanze: non è facile delegare a qualcuno la sua cura, visto che pochi sanno come occuparsi di un’oca), e visto il suo carattere non è facile lasciarlo in custodia a chicchessia, tenendo conto anche del suo bisogno di uscire e passeggiare in mia compagnia ogni giorno».
Manuela non ne consiglia l’adozione, ma adora questo suo volatile appartenente alla famiglia delle Anatidi, le cui piume sono anche proverbialmente utili all’essere umano. E con il suo racconto ci permette di sfatare la credenza secondo cui l’oca sarebbe l’animale simbolo della stupidità, fatta salva, forse, un’eccezione: le sciocchezze che alcuni uomini hanno scritto con le sue penne…