Un ticinese a capo della direzione

«Ogni singola persona che riesce a tornare alla propria vita privata e al proprio posto di lavoro dopo un infortunio o una malattia, conquista un doppio beneficio: uno per sé e uno per la società», il ticinese dottor Gianni Roberto Rossi è stato dal 1998 al 2018 direttore e presidente della gestione clinica della Clinica Hildebrand Centro di riabilitazione Brissago, e dal 1° luglio 2018 ha assunto la direzione della clinica di riabilitazione Rehaklinik di Bellikon dove ci accoglie con l’entusiasmo di chi ha profondamente a cuore la struttura, i suoi specialisti e soprattutto il benessere dei pazienti che si trovano a soggiornarvi per lunghi periodi. 

Soggiorni durante i quali, ci racconta: «Abbiamo il compito di aiutarli a riacquistare salute e autonomia, così che possano rientrare a casa e reintegrarsi nuovamente nella famiglia, nella società e nel lavoro». Grandi spazi molto ben strutturati, lungimiranza, competenze e passione sono le qualità che abbiamo potuto apprezzare, accompagnati dal dottor Rossi, durante la nostra visita alla Rehaklinik di Bellikon. 

Il dottor Gianni Roberto Rossi

La filosofia terapeutica alla Rehaklinik di Bellikon

La Rehaklinik Bellikon è una clinica Suva specializzata in riabilitazione traumatologica precoce, medicina sportiva, reinserimento professionale e perizie mediche. Si trova in una posizione soleggiata, sull’Heitersberg tra Zurigo e Baden e gode di un ampio riconoscimento che va oltre i confini nazionali. Dispone di oltre 220 posti letto e cura annualmente 1500 pazienti degenti e 2600 pazienti in regime ambulatoriale. Si avvale di personale di comprovata esperienza e conoscenze all’avanguardia nell’ambito delle riabilitazioni dopo infortuni. Ma non solo: offre un sostegno psicologico, un centro perizie, ed è pure l’unica clinica di riferimento della Svizzera che si occupa di riabilitazione agli ustionati per la quale si avvale della stretta collaborazione con l’Ospedale universitario di Zurigo, vantando di conseguenza una profonda esperienza di lunga data su speciali procedure terapeutiche e cure mediche all’avanguardia anche in caso di ferite. 

La filosofia del progetto riabilitativo sottintende un programma individualizzato che tenga conto del fatto che tutti i pazienti sono differenti l’uno dall’altro. Per questo, i diversi specialisti collaborano per garantire la massima interdisciplinarietà finalizzata al conseguimento dei migliori risultati individuali. L’offerta terapeutica tiene conto dei trattamenti diversificati secondo il modello stazionario o ambulatoriale, sempre all’insegna della cooperazione tra le discipline.

Tra le terapie più importanti figurano la fisioterapia, la logopedia, l’ergoterapia, le terapie robot-assistite, l’allenamento di forza e resistenza, la terapia e consulenza dello sport e la terapia neuropsicologica. Particolare attenzione è riservata alla riabilitazione psicosomatica e alla psicoterapia in caso di disturbi psichici, alla consulenza sociale in caso di problematiche sociali famigliari o finanziarie, coadiuvate dalla terapia del lavoro nel recupero delle abilità necessarie allo svolgimento di una professione e il reinserimento professionale. Quest’ultimo, quando è possibile, viene studiato con l’ottica dell’organizzazione del ritorno alla professione esercitata prima dell’infortunio, o un avviamento a una nuova professione. 

La clinica offre una «Aquazone»: piscina con fondi mobili, vasche terapeutiche e di deambulazione, terapie con animali e giardinaggio, insieme a una Down Town: una «città del tempo libero» con un’ampia offerta ricreativa che va dal cinema, alla zona giochi, atelier per bricolage, sala fumatori, arena e world café con sala musicale, biblioteca e centro internet. 

Marcel Immer, tecnico ortopedico della scarpa e il paziente Simon Gerber (Stefano Spinelli)

L’inizio di una seconda vita

Un mondo di terapie Reportage dalla Rehaklinik di Bellikon per comprendere l’importanza di un progetto riabilitativo dopo un grave infortunio
/ 25.11.2019
di Maria Grazia Buletti

«Ero postino e talvolta ritiravo la posta alla stazione di Baar dove, quel giorno del mio infortunio, volevo recuperare velocemente un pacchetto che avevo dimenticato nel vagone del treno. Mentre provai a salire la porta automatica si chiuse e io vi rimasi incastrato con il polso: rimasi bloccato fuori dal treno, senza possibilità di scampo, con il braccio incastrato nella porta. L’Interregio partì, presi disperatamente a pugni il pulsante di apertura della porta che però non si aprì. A quel punto lo spirito di sopravvivenza ebbe il sopravvento sulla paura: urlavo invocando aiuto mentre cominciai a correre attaccato al convoglio che prendeva velocità, fino a quando non riuscii più a tenere il passo e mi raggomitolai. Ricordo di aver pensato che dovevo resistere così per due chilometri e mezzo pari a due minuti e 56 secondi: il tempo necessario ad arrivare alla prossima fermata. Però a un certo punto sentii le forze abbandonarmi e lasciai cadere a penzoloni la mia gamba destra che, come una banderuola a folle velocità, fu investita da ghiaia, traversine e placche metalliche che mi strapparono letteralmente la carne».

Dopo due lunghissimi minuti e mezzo il treno si fermò alla stazione di Zugo: «Premetti ancora una volta il pulsante e la porta finalmente si aprì. Io mi accasciai al suolo e fui soccorso da alcuni operai che lavoravano sui binari. Venni subito ricoverato all’Ospedale cantonale di Lucerna dove mi dovettero amputare il piede». Questo è il racconto di Simon Gerber, un postino che nel 2012, a 53 anni, ha vissuto uno spaventoso incidente che gli risparmiò la vita, ma lo lasciò invalido con l’amputazione del piede destro e una nuova esistenza da recuperare dapprima, e poi da reinventarsi. 

Lo incontriamo alla Rehaklinik di Bellikon dove è stato degente per lungo tempo (dopo la fase acuta passata all’ospedale cantonale di Lucerna), e dove ha seguito un percorso di riabilitazione e riqualifica personale che oggi lo vedono, sessantenne, a lavorare per la Società di trasporti pubblici di Lucerna per la quale guida gli autobus. Siamo a Bellikon, un comune del canton Argovia di appena 1550 abitanti dove, immersi nel verde di un paesaggio che calma e rasserena gli animi, visitiamo una delle due cliniche della Suva (ndr: l’altra è a Sion) che vanta una lunga esperienza nella riabilitazione medica precoce post-infortunio, nella medicina sportiva, nelle perizie mediche e nel reinserimento sociale e professionale delle persone che hanno subito un infortunio.

«La Rehaklinik Bellikon è stata la mia salvezza, qui medici e terapeuti mi hanno permesso di affrontare e superare le ferite fisiche e psicologiche legate al mio infortunio, restituendomi mezzi e fiducia per poter intraprendere un nuovo percorso professionale», ci racconta ricordando pure gli incubi del periodo post-traumatico. All’inizio del suo percorso dice di aver pensato con vero rammarico che non avrebbe mai più potuto camminare e che non sarebbe più potuto tornare a lavorare. «Nell’immediato si è trattato di curare per bene le ferite della mia gamba e quelle dell’anima. Quante ore ho passato seduto nel parco a godermi la pace di questo luogo! Anche il panorama che spaziava dalle Alpi grigionesi a quelle bernesi ha certamente favorito la mia guarigione. Mi spostavo sulla sedia a rotelle e ricordo che è stato un lungo periodo nel quale sono però sempre stato affiancato, sostenuto e incoraggiato dai miei curanti e riabilitatori». Simon si racconta come un fiume in piena, ribadendo spesso la fortuna di aver potuto contare su chi lo ha curato e motivato per poter credere e affrontare il percorso verso una seconda vita sociale e professionale. 

«Le mie giornate sono state da subito scandite dalle terapie: fisioterapia, scuola di deambulazione, centro fitness: tutto ciò mi ha permesso di parlare di quanto mi era capitato e di elaborarlo». Sorride e scambia qualche simpatica battuta con il chirurgo ortopedico dottor Felix Tschui al quale chiediamo cosa significhi, in buona sostanza, affrontare un percorso di riabilitazione in una clinica come questa, che accoglie soprattutto persone di giovane e media età che hanno subìto grossi traumi agli arti: «Trattiamo persone che, dopo un infortunio di differente gravità (o una malattia), non sono ancora in grado di riprendere la vita e il lavoro che conducevano prima. Di norma si tratta di pazienti che arrivano dopo un’ospedalizzazione acuta perché hanno subìto un cosiddetto politrauma, ad esempio a causa di un incidente automobilistico, un infortunio sul lavoro e quant’altro che comportano la compromissione di una o più parti del corpo. Se un paziente ha gli arti compromessi non potrà rientrare al proprio domicilio senza aver seguito una riabilitazione stazionaria ed eventualmente una riqualifica professionale che gli permetterà di riprendere a vivere dignitosamente».

Chi giunge in clinica riabilitativa è reduce da un primo ricovero acuto a cui ora dovrà seguire una nuova fase del processo di guarigione, anche se il dottor Tschui puntualizza che «più che guarire il paziente, nostro compito è quello di supportarlo nel superare le sue nuove limitazioni. Dunque, oltre a procedere con il trattamento della lesione, abbraccia orizzonti più ampi la valutazione del paziente che accompagniamo nella graduale acquisizione di nuovi strumenti perché possa tornare alla sua vita normale». 

È la sfida di un lungo percorso che dura di norma parecchie settimane: «La durata della riabilitazione dipende naturalmente dal tipo e dalla gravità della lesione riportata e ogni caso è individuale secondo lo stile di vita della persona, il suo contesto famigliare e professionale. Ad esempio, il percorso sarà differente fra chi dovrà tornare a svolgere un lavoro d’ufficio e chi dovrà riconfrontarsi con la sua precedente professione manuale». L’individualizzazione delle cure è dunque uno degli aspetti importanti: «Dal primo momento del ricovero valutiamo il quadro della situazione individuale: quale lavoro svolge il paziente, come vive, se ha un contesto famigliare, se ha degli amici, quali sono i suoi obiettivi e via dicendo. Questo ci permette di comprendere se il suo ritorno al precedente impiego sia realistico o meno e ci indica la direzione che dobbiamo intraprendere nella sua riabilitazione».

A questo punto, il chirurgo ortopedico ci spiega le differenti fasi di ogni intervento riabilitativo, dettate dalle condizioni iniziali: «Accogliamo alcuni pazienti nella nostra unità di terapia intensiva, altri, come il signor Gerber, giungono qui in una condizione che ci permette di iniziare subito un lavoro riabilitativo inter- e multi-disciplinare». Il concetto di interdisciplinarietà è il requisito di presa a carico essenziale per giungere al successo: «Il nostro team è altamente specializzato e aggiornato sulle prassi più innovative ed è composto da differenti figure professionali al servizio del percorso di ogni paziente: parlo di fisioterapisti, ergoterapisti, psicologi, tecnici ortopedici, assistenti sociali e via dicendo, senza dimenticare le diverse figure che si occupano del riadattamento post professionale».

Sempre più addentro al nostro percorso virtuale riabilitativo e di riqualifica professionale che la Rehaklinik di Bellikon offre, ritorniamo a parlare dell’esperienza di Simon Gerber attraverso il suo racconto che avevamo lasciato al momento in cui, curato il fisico, egli doveva cominciare a riprendersi in mano la vita: «Il mio terapista aveva capito che avevo bisogno di un sostegno psicologico oltre che fisico. 

La consapevolezza che tutti mi sostenevano, credevano nelle mie risorse e alla possibilità del mio rientro alla vita professionale ha rafforzato la mia autostima dandomi la forza di credere che ce l’avrei potuta fare». Così, ci racconta che lungo i quattro mesi di degenza impara dapprima ad alzarsi pian piano dalla sedia a rotelle e a camminare con le stampelle, cominciando poi a salire le scale e imparando a muoversi su differenti tipi di pavimento: «Facevo grandi progressi supportati dalle conoscenze del personale nel campo dell’ortopedia tecnica». Nel frattempo il calzolaio ortopedico gli confeziona delle scarpe su misura. 

A spiegarci l’importanza del tecnico ortopedico nella riabilitazione chirurgica e ortopedica, è Michel Hofer, il tecnico ortopedico che illustra il mondo in continua evoluzione delle protesi, parlandoci dell’importanza della tecnica sempre più avanzata al servizio del raggiungimento dell’indipendenza e del reinserimento professionale e sociale delle persone che hanno subito l’amputazione di un arto. «Noi specialisti lavoriamo in team e disponiamo di competenze all’avanguardia per poter fornire a ciascun paziente una protesi adatta alle sue specifiche esigenze individuali, e per creare i migliori presupposti riabilitativi finalizzati a una buona reintegrazione socio-professionale». Hofer racconta come ogni protesi sia adattata e messa a punto sul moncone «finché non risulti posizionata alla perfezione e, dunque, potrà essere impiegata al massimo delle sue potenzialità perché la persona possa poi tornare a vivere quanto più normalmente possibile.

Ricca, l’odierna offerta di protesi innovative: «Parliamo di protesi dotate di elettrodi applicati ai muscoli, ad esempio del piede, del ginocchio o del braccio in modo da calcolare il passo, o il movimento della mano, e dare il giusto input di movimento. La stessa funzione che il cervello esercita, dando l’impulso di forza adeguato, quando valuta, ad esempio, se la mano deve afferrare un bicchiere di plastica o di vetro». Questo ci permette di comprendere alla perfezione le frontiere della ricerca protesica: «In questo momento, la mano più evoluta sa compiere 32 diverse funzioni che possono essere programmate al bisogno (anche dal paziente via APP)». 

Per ogni singolo caso è valutata la necessità effettiva che permetterà a quel paziente di beneficiare delle possibilità adeguate al suo stile di vita: «Un contadino non avrà bisogno di una protesi così raffinata che potrebbe rompere subito nel fare lavori pesanti, ma sarà invece utile a chi deve fare lavori di fine motricità». L’individualizzazione dell’adattamento protesico secondo il percorso riabilitativo e le necessità del paziente apre le porte alla sua riqualifica, che sarà valutata e programmata «non appena i medici determineranno i limiti e le possibilità lavorative che il paziente potrà superare e affrontare», racconta il capo dell’integrazione professionale Jonas Meier, che elenca qualche esempio concreto di perizie atte a ridefinire la nuova capacità lavorativa: «Ad esempio, un muratore con problemi a un ginocchio potrebbe nuovamente lavorare sì al 100 percento, ma forse in un ambito professionale che tenga conto del fatto che egli potrà svolgere un lavoro più leggero del precedente. Ogni persona dispone di risorse e possibilità che aiuteremo a individuare insieme, considerando un suo reinserimento professionale che tenga conto delle indicazioni mediche, del suo livello professionale e del mercato del lavoro». 

Se il paziente non potrà rientrare al vecchio impiego, sarà indirizzato a nuova vita professionale come è successo al signor Gerber che dice di aver potuto beneficiare appieno degli anni di esperienza della clinica nella riabilitazione post-infortunio: «Grazie al capo dell’ortopedia tecnica ho fatto progressi incoraggianti e, ricevute le mie scarpe su misura, l’AI e gli specialisti di Bellikon mi hanno assistito nel mio percorso di riqualifica professionale». Ci ricorda con orgoglio che oggi sono già cinque anni che lavora a tempo pieno come conducente di autobus per l’Azienda di trasporti pubblici di Lucerna: «Da un giorno all’altro puoi essere strappato dalla tua vita e tutto può cambiare. Però qui ho capito che rinascere è possibile, e a chi oggi sta affrontando questo percorso dico: prendi l’aiuto che ti viene offerto, perché per te desiderano solo il meglio, proprio come vuoi tu».