Chi deve affrontare una malattia oncologica entra in una varietà di vissuti emotivi e psicologici di cui oggi tiene specificatamente conto la psico-oncologia. Nata negli USA attorno al 1950, e progressivamente cresciuta in tutto il mondo, è una disciplina che si occupa in modo specifico delle conseguenze psicologiche causate da un tumore interdisciplinarmente alla presa in carico del paziente oncologico. Perché non va dimenticato che, come afferma il professor Luigi Grassi (già presidente della Società italiana di psico-oncologia e ordinario di Psichiatria all’Università di Ferrara): «Ammalarsi di cancro è un avvenimento traumatico che investe tutte le dimensioni della persona (sfera psicologica, valori individuali e spirituali, rapporti interpersonali e sociali) e non solo quella fisica. Comprendere a fondo quanto la persona vive e qual è l’impatto della malattia e delle terapie sull’esistenza diventa perciò fondamentale per offrire ai pazienti un’adeguata assistenza». Sappiamo che ansia, paura, preoccupazione, demoralizzazione e rabbia sono normali risposte alla malattia. Il professor Grassi sottolinea: «Quando queste diventano più intense, più continue e perseveranti, è importante chiedere aiuto psicologico specialistico senza vergogne di vulnerabilità o timore di essere anormali o malati di mente».
L’incontro con la figura dello psico-oncologo e la richiesta di essere accompagnati attraverso un percorso terapeutico spesso complesso e faticoso può avvenire in diversi modi, come spiega la psicologa da noi interpellata Claudia Nesa: «I modi e i momenti possono essere svariati: le persone possono arrivare da noi perché è possibile che il loro medico curante colga le loro difficoltà: ad esempio, il paziente manifesta dubbi e perplessità, entra in una passività che non gli appartiene, esprime emozioni di delusione, rabbia o sconforto che vengono colti dai curanti. L’irritabilità e l’irascibilità che la persona può manifestare ai suoi famigliari portano talvolta questi ultimi, nel corso del lungo percorso terapeutico, a richiedere essi stessi il nostro sostegno». Aiuto che, invece, talvolta è il paziente stesso a desiderare a causa della nuova dimensione in cui la sua malattia lo catapulta: «Non si riconosce, ad esempio, nella propria identità scalfita da una passività che ritiene non appartenergli, o riconosce reazioni verso l’esterno abitualmente non sue come, dicevamo, irritabilità e irascibilità verso chi gli sta attorno». L’esperienza del dolore è cosa del tutto individuale, così come il tipo di sostegno che il paziente oncologico, ed eventualmente i suoi famigliari, possono richiedere rivolgendosi alla figura dello psico-oncologo. A sua volta, egli potrà sostenerli in diversi modi. «Una nostra specificità attinente al percorso di cura sta nel dare un tempo a un ascolto, a un vissuto, perché questo tempo non sempre c’è», spiega Nesa ricordando che questa malattia e il suo percorso terapeutico «cambiano sostanzialmente la vita» per affrontare la quale: «Sono imposte tutta una serie di cose per cui le persone cercano di comprendere come farvi fronte: il contesto della cura dice come devi fare, ma tutti abbiamo un modo individuale a cui lo psico-oncologo deve poter dare spazio e ascolto, integrando la totalità della persona ammalata e del suo contesto».
Una seconda specificità di questo sostegno sta nella fiducia che si instaura fra paziente e psico-oncologo: «In quel momento, egli si apre e racconta cose che non si sentirebbe di dire agli altri o in contesto diverso. Ad esempio: spesso si vuole proteggere i propri famigliari dalla sofferenza, e non si riesce perciò a raccontare certe cose a un marito, a una moglie. Può non essere sollecito e scontato che si riesca a parlare nell’immediato della morte o di altri aspetti delicati del percorso terapeutico con i propri famigliari. Anche la comunicazione con i figli può essere vissuta come gravosa e può necessitare di un accompagnamento». Il dolore può risultare gravoso e «indicibile», lasciarlo intravvedere può sembrare distruttivo, ma la psico-oncologa ricorda che si tratterebbe di lasciar intuire come esso possa essere trasformato, affrontato e non messo da parte: «Il dolore fisico e quello morale fanno molta paura, perciò si teme quello che una malattia così complessa potrebbe infliggere ai propri cari». Non essere in grado di immaginare come affrontare tutto questo spinge il paziente a non provarci nemmeno: «È nostro compito aiutare la persona ad aprire un immaginario su tutto ciò, su come si possa sopravvivere e su come si riesca a tornare a vivere». Allora, ecco che la valutazione della risposta emozionale delle persone ammalate (ed eventualmente dei loro famigliari) è assunto dalla psico-oncologia come un dovere della medicina poiché, come afferma il professor Grassi: «Il dolore psicologico, al pari del dolore fisico, è in tutto e per tutto un parametro vitale da monitorare regolarmente lungo il percorso di malattia e di follow-up». Nesa completa il quadro con l’importantissimo elemento del «senso» che è pure parte integrante di un percorso di malattia: «Noi diventiamo testimoni di come la persona tenti di collocare la sua malattia all’interno del suo percorso di vita; la condivisione della ricerca di un senso che il paziente prova a dare alla propria condizione è un grande privilegio che ci viene dato. Siamo presenti in queste storie di vita in cui si scrive la malattia che, a sua volta, mette in moto domande ancora più ampie («perché mi succede questo?») in relazione a domande più specifiche («come faccio ad attraversare questi 6 cicli di chemioterapia?»)».
Buddha ha detto che il cambiamento non è mai doloroso, solo la resistenza al cambiamento lo è, e con la diagnosi di guarigione c’è un «poi» che non va sottovalutato, in cui il paziente non va lasciato a se stesso perché ognuno può avere differenti reazioni: «Il tema comune è il parametro di confronto sul come è cambiata la sua identità tra prima e dopo la malattia. Allora egli cerca di ritrovarsi, di rientrare nel proprio ruolo precedente». Ma raramente le cose vanno così, perché il percorso di malattia ha modificato la persona stessa e il suo vivere: «Spesso ciò viene vissuto come una perdita, ma di perdita non sempre si tratta: la persona deve solo scoprire, verificare e accettare il nuovo essere se stesso nel presente». La psico-oncologia viene in aiuto pure qui, nell’ambito di un vero e proprio diritto a una cura globale in cui tutte le persone ammalate di tumore possono esprimere i propri bisogni psicologici ai propri curanti, garantendo così una migliore qualità di vita e un’assistenza ottimale. Facile comprendere, dunque, che per capire il dolore, e farvi fronte, occorrono le parole.