«Tu lo sai. Sai benissimo che stai cadendo in un tunnel. È pazzesco quante storie ti racconti, in certi momenti. Dicevo a mia madre che potevo smettere quando volevo, lo dicevo soprattutto a me stessa. Ma continuavo a farmi». Ilaria (nome di fantasia) ancora oggi, di fronte a noi, nuota in una nuvola bianca, una nebbia che non permette alla ragione di discernere fra bene e male. «È iniziato tutto con la meningite. Fino a 15 anni la mia vita era bella. Avevo una splendida famiglia, frequentavo la propedeutica e sognavo di fare l’educatrice». Ilaria adesso ha trent’anni e poche speranze. Coltiva un terreno arido frutto di scelte sbagliate. Ride spesso, è a disagio e mostra una certa timidezza. «La meningite ha lasciato un segno, ero sempre stanca, avevo sempre sonno. A sedici anni sono uscita con un ragazzo che mi ha offerto la coca, ho provato ed è iniziato l’inferno».
L’«educazione» tossica di Ilaria è iniziata e proseguita sotto il segno dell’amore. Dopo quella storia, ne è arrivata un’altra, la posta in gioco si è alzata: dalla cocaina all’eroina. «Nel frattempo i miei mi avevano sbattuta fuori di casa e io stavo da lui. Per un anno abbiamo abitato insieme in un appartamento, vivevamo in condizioni pietose. Io nemmeno me ne accorgevo. Non mi interessava chi fosse al mio fianco, mi bastava che avesse la droga». I suoi genitori, che l’avevano riaccolta in casa col fidanzato, a un certo punto capiscono di non poter sostenere una situazione diventata ormai ingestibile, le chiedono di nuovo di andarsene. «Hanno fatto bene» – commenta lei. «Un tossico deve capire che deve smettere, altrimenti muore. Da quel momento ho iniziato con le comunità». Fra un ricovero e l’altro, Ilaria conosce una nuova persona,: non più eroina sniffata, ma in vena. «Non posso dire che sia stata colpa sua, è sbagliato: io l’ho fatto, io l’ho voluto. Da quel momento sono caduta davvero in basso e pur di potermi comprare la droga ho iniziato a prostituirmi». Giornate buie, una più cupa dell’altra, poi la decisione: ritirarsi in una comunità in provincia di Savona, in un posto sperduto, lontana da tutti, da tutto. «Lì ho smesso con la cocaina e con l’eroina. È stata dura, ma ora sono quattro anni che non tocco nessuna droga, eccezion fatta per qualche canna. Non faccio nemmeno uso di farmaci, ne sono uscita».
A Viganello, nel centro di accoglienza diurno che fa capo a Ingrado (associazione specializzata nei problemi di dipendenza), passa le giornate insieme ad altri che come lei hanno questi problemi, aspetta che arrivi sera e che il suo compagno («questo è pulito», dice) finisca il lavoro. La sua vita, però, non ha trovato ancora la giusta direzione. «A causa della meningite non riesco a fare niente, quando mi sveglio al mattino spero che arrivi presto la notte».
Gli happy end sono rari quando si finisce nel tunnel della droga, eppure c’è chi ci crede, come Francesco Buloncelli, operatore di prossimità che avvicina le persone con problemi di tossicodipendenza nei luoghi di ritrovo di Lugano, chiedendo loro di fidarsi di lui, in modo da immaginare insieme un progetto di vita, l’unico vero ed efficace antidoto all’autodistruzione. «Bisogna leggere fra le maglie della motivazione – aggiunge Marcello Cartolano, responsabile del Settore delle sostanze illegali di Ingrado – trovare, sotto la crosta della disperazione quotidiana, la scintilla del desiderio, che apparentemente sembra spenta ma non lo è mai del tutto».
Un percorso difficile, irto di ostacoli, causati in primis dalla propria mente. «Il fatto è che se non sei abituato a stare bene hai paura di questa condizione, la rifiuti». Michela (nome di fantasia) ha 47 anni ed in alcuni momenti è lucidissima. «Sono nata in una famiglia disfunzionale. Così chiamano le famiglie come la mia. I miei facevano parte di un movimento religioso e mio padre, in special modo, era un fanatico estremista. Da piccola non potevo festeggiare un compleanno e nemmeno partecipare a quelli delle mie amiche di scuola, non potevo disegnare un albero di Natale, altrimenti veniva a prelevarmi a scuola ed erano guai». Una figura genitoriale maschile violenta, sia a parole che a fatti. «Fino a 26 anni non ho mai toccato nemmeno una sigaretta. Mi capitava a volte di passare per il Parco Ciani, vedevo i drogati e mi sembravano felici. Volevo essere libera come loro». Alle botte del padre, che arrivavano senza nessun motivo si aggiungevano le miopie di tutta la famiglia allargata, costituita dal gruppo di fedeli che Michela ha frequentato assiduamente durante la sua infanzia e adolescenza. «Passavamo tutto il tempo libero insieme, persino le vacanze. Quando a vent’anni sono scappata di casa con un uomo che è diventato mio marito e il padre dei miei figli, non mi hanno più rivolto la parola non solo i miei genitori, ma anche tutte le mie amiche. È stato come perdere tutta la famiglia, non avere più nessuno al mondo». Il matrimonio naufraga, Michela si trova da sola. Conosce un uomo che è gentile con lei, che la considera. Lo segue; lui la inizia alla droga. «Mi sentivo accettata. Cercavo una terapia e devo ammettere che l’eroina inizialmente mi ha curata: era l’unica cosa in grado di lenire la sofferenza che portavo dentro di me. Solo che poi mi ha fatto un danno ancora maggiore».
Per uscire dal tunnel anche Michela, costretta a dare in affidamento i suoi figli, va in comunità. Oggi porta ancora i segni della sua dipendenza: l’epatite C e un enfisema polmonare. «Io nell’affetto sto male. Faccio fatica. Sono borderline. È normale, da una famiglia così si esce a pezzi. Ho ripreso a vedere mia madre, a volte sento una rabbia verso di lei, ma la trattengo, perché è debole di cuore. Sono fuori dalla droga? Da due anni non tocco più niente. Ma quando si è stati tossicodipendenti non si può mai dire. Potresti ricaderci da un momento all’altro». Michela ci saluta. Ha consumato cocaina ed eroina per vent’anni, perché non sapeva come sciogliere quel dolore sordo in mezzo al petto.
Ingrado è un posto dove la sofferenza è qualcosa di materico. Qui c’è chi, come Filippo, a 19 anni ha già le spalle due anni di tossicodipendenza e due mesi di detenzione per spaccio. «Ma io voglio aiutare gli altri, un domani, trovare un lavoro in una casa anziani perché credo in Dio, sono cristiano». Al collo porta un crocifisso e nasconde un’espressione dolente sotto la visiera del cappellino. Il giorno prima la stessa visiera è salita, con altri ragazzi del centro diurno, fino al Monte Generoso; li ha guidati Francesco, l’operatore di prossimità che tende una mano a tutti. Insieme hanno raggiunto il Fiore di pietra di Mario Botta, in vetta. Da lì si può solo scendere.