«Le domande più frequenti sulle protesi della spalla, dell’anca e del ginocchio» è il tema della conferenza pubblica proposta dall’Unità di chirurgia ortopedica e traumatologica dell’Ospedale Regionale di Lugano (Orl) nell’ambito del ciclo di incontri informativi promossi dagli specialisti ortopedici che l’anno scorso avevano illustrato le patologie cartilaginee del ginocchio («Azione» no. 18/2017, Se il ginocchio fa male).
Questo secondo incontro con la popolazione (entrata libera) avrà luogo mercoledì 21 febbraio, nell’Aula Magna dell’Università della Svizzera italiana (Usi), alle 18. Si parlerà di protesica delle articolazioni di spalla, ginocchio e anca. «Siamo sempre più persuasi dell’importanza di metterci a disposizione della gente per quanto attiene a tutte le informazioni, l’evoluzione medica e le indicazioni circa le patologie ortopediche», esordisce il dottor Christian Candrian, responsabile dell’Unità di Traumatologia e Ortopedia Orl. Sottolineando anch’egli l’importanza di incontrare personalmente gli interessati, gli fa ecco il suo omologo dottor Paolo Gaffurini: «Offriamo alle persone l’opportunità di conoscere meglio le problematiche legate alle articolazioni, unitamente all’approccio terapeutico adeguato e individualizzato che oggi il chirurgo ortopedico propone ai suoi pazienti».
Questo nuovo appuntamento informativo approfondirà la cosiddetta tecnica protesica articolare, concetto così riassunto dal dottor Gaffurini: «In ortopedia, possiamo definire la protesi come una componente atta a sostituire in parte o completamente un’articolazione, con l’intento di recuperare la sua funzionalità, togliere il dolore e/o ridare la stabilità». È dunque un impianto articolare tecnicamente ideato dall’uomo. Il dottor Candrian spiega che: «Per diverse cause, la natura può renderci invalida un’articolazione e l’uomo ha creato una sorta di nuova articolazione con una superficie articolare artificiale a sostituzione di quella malata».
Potrebbe sembrare la soluzione ideale per tutti i mali articolari, ma non è così come spiega Gaffurini: «Una protesi articolare è solo una panacea che va a colmare un insuccesso della natura, ma non saprà mai davvero eguagliarla». Resta innegabile che l’intervento di sostituzione articolare è uno dei più grandi progressi della medicina del nostro tempo. «Queste procedure chirurgiche hanno migliorato la qualità della vita dei pazienti, alleviando il dolore, migliorando la capacità di movimento e aumentando i livelli di attività quotidiana. Inoltre, la popolazione va verso una speranza di vita maggiore rispetto a un tempo, ragion per cui la protesica articolare migliora sensibilmente anche la qualità della vita di persone nella terza età» riassume Gaffurini.
Ci illustra invece una sintesi della storia evolutiva protesica, Candrian: «Dai primi tentativi del 1910, per giungere a quella che è la protesi moderna dell’anca, dobbiamo arrivare al 1963 e all’inglese Sir John Charnley che, dopo le protesi di acciaio inossidabile degli anni Cinquanta, inventò quella «cementata» con un cemento acrilico che era un buon collante per fissare le protesi in acciaio all’osso che le ospita». Questo perché gli impianti cementati risultavano stabili, duraturi e rispondevano alle caratteristiche indispensabili al loro successo: «Dall’inizio, nel XIX secolo, è stato subito chiaro che il materiale scelto doveva mimare al meglio le caratteristiche del corpo umano e al tempo stesso doveva essere biocompatibile (ndr: per essere accettato dal corpo)». Oggi ricerca scientifica e miglioramento delle tecniche di fabbricazione hanno prodotto soluzioni sempre più performanti e durature nel tempo: un elemento non trascurabile. Gaffurini: «Poiché un numero maggiore di pazienti giovani si sottopone a questa chirurgia, e gli anziani continuano a vivere più a lungo, un segmento crescente di portatori di protesi articolari vivrà più del proprio impianto protesico e non si renderà necessaria una sostituzione». Dati alla mano: «30 anni fa una protesi durava circa 10 anni; oggi il 94% delle protesi ha durata di 25 anni». Per questo, data l’indicazione all’intervento, anche una persona giovane può sottoporvisi più tranquillamente.
«L’indicazione deve essere chiara e segue un approfondito esame clinico, un’attenta valutazione del dolore e della sofferenza soggettiva, dello stile di vita del paziente e del suo deterioramento insieme a un bilancio delle sue aspettative, in un iter dove l’esame diagnostico seguirà, a conferma di quello clinico». I nostri interlocutori sono perentori: «Si opera sempre il paziente, non la sua radiografia, e solo con un’indicazione assolutamente pertinente».
Abbiamo di fronte chirurghi senza il bisturi facile, assolutamente disponibili a una valutazione individuale e alla focalizzazione delle esigenze del paziente dettate da tutta una serie di fattori imprescindibili. «Sono le premesse essenziali per andare incontro a un risultato ottimale e soddisfacente, senza dimenticare l’importanza di rendere attenti i pazienti sul fatto che un intervento di protesi all’anca su 20 può non avere il successo desiderato», afferma Gaffurini. Le protesi al ginocchio hanno una buona riuscita nell’80% dei casi: «Si tratta di due articolazioni sostanzialmente molto diverse: rispetto al ginocchio, l’anca è molto semplice perché non possiede ligamenti così complessi che devono assicurare il movimento di scivolamento rotatorio combinato», spiega Candrian che racconta come per la spalla la situazione è a sé stante: «Ciò è dovuto al fatto che la spalla è l’articolazione più mobile di tutto il corpo, la cui stabilità è dovuta a strutture circostanti (muscolatura, ligamenti, complesso bicipite – labbro articolare e cuffia dei rotatori)».
Egli si dice sollevato del fatto che la casistica sia minore e che non tutte le patologie alla spalla richiedano un intervento di protesi. Non entriamo nel merito dei dettagli di ciascuna articolazione che saranno ampiamente illustrati nel corso della conferenza pubblica all’Usi (21.02.2018, ore 18.00 Aula Magna), ma chiediamo quali siano le principali preoccupazioni dei pazienti: «Si chiedono se dopo l’intervento di protesi staranno meglio di prima e questo giustifica la pertinenza e l’essenzialità dell’indicazione: se non ho un’indicazione chirurgica, ripeto, non opero e se intervengo è perché posso migliorare nettamente la qualità di vita del paziente operato, che di norma poi si chiede perché ha aspettato tanto e non si è fatto operare prima».