Dici Parigi-Roubaix o Giro delle Fiandre e subito il pensiero corre ai grandi nomi della storia del ciclismo, in tempi recenti a fenomeni come Tom Boonen e Fabian Cancellara.
Chuenisbärgli è senza dubbio un luogo meno conosciuto al grande pubblico, ma gli appassionati di sci alpino sanno benissimo che questo pendio che sovrasta Adelboden è paragonabile, per difficoltà e mistica, alle due celeberrime Classiche monumento.
«Vedi Napoli e poi muori» scrisse Johann Wolfgang von Goethe. Oggi potremmo dire: vai almeno una volta ad assistere al gigante di Adelboden se vuoi provare la vera ebbrezza dello sci. Vacci preferibilmente da spettatore. Lasciati togliere il fiato quando da sotto, dal parterre, vedi sbucare in alto, ogni due minuti, gli sciatori sul muro finale. È un rito torcibudella, con un attimo infinitesimale di silenzio, quando lo sguardo passa dal grande schermo alla pista, prima dell’esplosione di hurrà, campanacci e trombette: fino all’ultima porta, fino al traguardo, fino a quando alla partenza, su in alto, si presenta il concorrente successivo, piccolo come la capocchia di uno spillo.
Nelle corse ciclistiche, quando il gruppo sonnecchia, può capitare che ci sia qualche vincitore a sorpresa. Il classico Carneade che si intrufola negli albi d’oro accanto a nomi prestigiosissimi. Tutto ciò accade molto raramente nei grandi appuntamenti sciistici. L’unica variabile, che ha consentito ad atleti di secondo piano di entrare nella leggenda, con la elle minuscola, è la meteo, altrimenti non c’è Santo che tenga. Sul Chuenisbärgli, sul Lauberhorn, così come in Alta Badia e sulla Streif di Kitzbühel, vincono solo i Santoni dello sci. Prova ne è che in tempi recentissimi, le gare di Adelboden sono indissolubilmente legate a Marcel Hirscher, l’asso austriaco che, non ancora trentenne, è già considerato il migliore di sempre. Non lo dicono i giornalisti. Non lo ribadiscono i fans. Sono i numeri a sentenziare. Sette Coppe del mondo consecutive, con l’ottava praticamente già in bacheca, anche se mancano più di due mesi al termine della stagione. Due ori olimpici, sei titoli mondiali, per un totale di dodici medaglie. Dieci Coppe di specialità, equamente divise tra slalom e gigante. E a confermare la nostra facilissima tesi, nove trionfi ad Adelboden: cinque in speciale, quattro in gigante. L’ultima doppietta risale allo scorso weekend.
Se scorriamo l’albo d’oro della gara bernese troviamo tutti i grandi della storia dello sci moderno. Dall’uno-due del francese Jean-Claude Killy, negli anni Sessanta, al tris dell’altoatesino Gustav Thöni nel decennio successivo. Poi sono giunti i cinque trionfi di Ingemar Stenmark, record assoluto, nel mirino di Hirscher. Quindi le doppiette di Pirmin Zurbriggen, Marc Girardelli, Benjamin Raich, e la tripletta di quel fenomeno di Hermann Maier, che, senza gli infortuni, avrebbe potuto scolpire ancora più profondamente il suo nome nella storia dello sci. Pensate che due gigantisti considerati fra i migliori di sempre, il potentissimo Alberto Tomba e l’elegantissimo Michael Von Grünigen si sono imposti una sola volta sul Chuenisbärgli.
Ci spostiamo di pochi chilometri in linea d’aria. Tutti in posizione per mantenere la velocità sulle pendenze al 42 per cento dell’Hundschopf. Non ci si deve distrarre sulla pista di discesa più lunga del circo bianco. Ogni incertezza, ogni sbavatura, ogni linea non ideale, si paga. Lo avrete capito, siamo a Wengen, dove partono in ottanta col sogno di iscrivere il proprio nome nell’albo d’oro del Lauberhorn. Mission impossible per la stragrande maggioranza.
Anche qui è una questione fra mostri. Mettiamo da parte l’archeologia, quando si sciava su due listelli di legno, quando le gare erano una questione sostanzialmente svizzera, quando l’«enfants du pays», Karl Molitor riusciva a lasciare il segno per ben sei volte a cavallo fra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso. Da quando lo sci, sul finire degli anni Cinquanta, ha iniziato il suo inarrestabile cammino verso la professionalizzazione, tutti i grandi, o quasi, sono riusciti ad addomesticare questa Classicissima di gennaio. Dal poker degli austriaci Toni Sailer e Karl Schranz, al tris del loro connazionale Kaiser Franz Klammer, alle doppiette del lussemburghese Marc Girardelli, del gardenese Kristian Ghedina, dell’americano Bode Miller e dell’austriaco Stephan Eberharter.
Infine, per fortuna, ma non per caso, molta Svizzera nell’ultimo decennio, con quattro dei nostri campioni che hanno legato indissolubilmente il loro nome alla pista bernese: Didier Defago, Carlo Janka, Patrick Küng e Beat Feuz. Prima di loro, l’impresa era riuscita ad altri quattordici discesisti rossocrociati. Mai, però, a due icone come Bernhard Russi e Didier Cuche. Ed ecco la risposta all’interrogativo iniziale. Il Lauberhorn è diventato leggenda anche senza il loro sigillo. Dal canto loro, Russi e Cuche sono parte della leggenda pur senza aver trionfato sul magico pendio bernese.