È utile pensare al DNA e ai geni come due entità distinte, sebbene i secondi sia-no fatti del primo. Il DNA è qualcosa di tangibile, è una sostanza chimica, che si appiccica alle dita. I geni sono lunghi filamenti di DNA ma sono anche cose immateriali perché, in pratica, sono unità d’informazione. Il gene è simile a una storia, mentre il DNA è la lingua in cui la storia è scritta.
I cromosomi sono strutture più grandi, formate da geni e DNA, e assomigliano un po’ a libri pieni di storie. Le cellule sono una specie di biblioteca che reca le istruzioni per il funzionamento dell’intero organismo.
La storia di come si è compresa la correlazione tra DNA, geni, cromosomi e cellule è lunga e non ancora finita, anche perché – nel frattempo – l’epigenetica ha attirato l’attenzione sul fatto che l’espressione di certi geni dipende anche dall’interazione degli organismi con l’ambiente. Nonostante questi limiti, siamo già in grado di usare il nostro codice genetico per raccontare il nostro passato con una precisione di dettaglio impensabile solo pochi anni fa. Questo è lo scopo che si è prefissato San Kean, scrivendo Il pollice del violinista, una raccolta di testi dedicati sia alla storia della genetica stessa, sia alla nostra storia profonda, scritte nel nostro DNA.
Spiegando come eravamo sul punto di estinguerci, San Kean si sofferma su alcune particolarità della nostra alimentazione. La sua ricostruzione parte dall’osservazione che le scimmie «hanno molari e stomachi fatti per ridurre in poltiglia la materia vegetale, e in natura seguono fondamentalmente una dieta vegana». È vero che ci sono primati, come gli scimpanzé, che mangiano con regolarità termiti o altri piccoli animali e che, in particolare, gli esemplari più giovani talvolta si cibano di piccoli mammiferi indifesi, tuttavia la dieta dei primati è prevalentemente vegana. Prova ne è che in quasi tutte le scimmie un’alimentazione ricca di grassi e colesterolo è dannosa per l’intestino e per le arterie. Com’è possibile, quindi, che noi umani, che condividiamo con i primati gli stessi antenati, consumando carne con moderazione, non accusiamo gli stessi gravi problemi?
Che i nostri progenitori paleolitici mangiassero carne è reso evidente dai molti strumenti da taglio abbandonati accanto ai cumuli di ossa dei megamammiferi con cui ci sfamavamo, sicché già nel Pleistocene eravamo onnivori. Ma cos’è avvenuto perché noi potessimo mangiare carne senza soffrire dei disturbi degli altri primati?
Ciò che rese possibile acquisire anche la carne alla nostra dieta furono le mutazioni del gene apoE (dell’apoliproteina E). La prima mutazione «stimolò la capacità delle cellule killer del sangue di attaccare i microbi, come quelli letali che si celano in ogni boccone di carne cruda». Tuttavia, pur in grado di mangiare carne, come gli altri primati eravamo esposti agli effetti devastanti sul sistema cardiocircolatorio prodotti da un eccesso di grassi di origine animale. La mutazione dello stesso gene apoE che ci permise di distinguerci dagli altri primati si verificò circa 220mila anni or sono, consentendoci di scomporre i grassi pericolosi e il colesterolo, con l’effetto di poter vivere il doppio rispetto agli altri primati.
La lettura delle storie scritte nel DNA riserva sorprese che, talvolta, possono lasciare davvero stupefatti. Per esempio veniamo a conoscenza del fatto che siamo i primati con la maggior omogeneità genetica, sebbene la popolazione mondiale abbia raggiunto i sette miliardi e mezzo, e nonostante il diverso colore della pelle, le diverse fisionomie e le diverse fattezze, tutti dipendenti dai diversi ambienti che abbiamo colonizzato nella nostra lunga migrazione dall’Africa. Gorilla e scimpanzé, di cui sono rimasti circa centocinquantamila esemplari per ciascuna specie, hanno, per contro, una varietà genetica superiore alla nostra, malgrado ci appaiano molto simili.
La spiegazione finora più accreditata è che c’è stato un momento recente della nostra storia evolutiva, nel quale la popolazione umana è stata composta da un numero di esemplari inferiore ai gorilla e agli scimpanzé. Eravamo, cioè, sul punto di estinguerci. Che cosa causò questo «collo di bottiglia», attraverso il quale passarono così pochi esemplari della nostra specie da spiegare la nostra odierna omogeneità genetica?
In questi anni, gli studiosi considerano che la più massiccia riduzione della popolazione mondiale avvenne circa 70mila anni or sono, quando l’esplosione del vulcano Toba in Indonesia eruttò 2700 chilometri cubi di materiale, che oscurarono i cieli della Terra per anni. Qualcosa di paragonabile, ma di dimensioni molto minori, accadde nell’aprile del 1815, quando l’eruzione del vulcano Tambora cancellò per un anno l’estate da tutto il pianeta. «Secondo la teoria del collo di bottiglia del Toba, l’eruzione iniziale portò a una diffusa carestia, ma fu il successivo inasprimento dell’era glaciale a portare la popolazione umana al limite dell’estinzione». Prova indiretta sarebbe il fatto che anche il DNA di macachi, orangutan, tigri, gorilla e scimpanzé mostra segni di un collo di bottiglia dopo l’eruzione del Toba.
Scopriamo nuove cose della nostra storia profonda non solo leggendola nel nostro DNA, ma anche in chi ci sta vicino. Confrontando il DNA del pidocchio del capo con quello del pidocchio del corpo, si è per esempio potuto stabilire quando abbiamo cominciato a indossare con regolarità degli indumenti: circa 190mila anni or sono, vale a dire quando, liberatici della peluria, avevano cominciato a crescerci i capelli.
Mentre il costo per il sequenziamento di un intero genoma, in un decennio, si è ridotto da tre miliardi di franchi a circa diecimila, nuove storie molto avvincenti stanno per essere raccontate non solo dalla genetica ma anche dall’epigenetica. È proprio su questa disciplina che, negli ultimi capitoli del suo libro, San Kean attira l’attenzione: dallo studio del modo in cui l’ambiente e le nostre abitudini, anche nel corso della nostra stessa vita, regolano l’espressione dei geni, sta emergendo un fatto nuovo, vale a dire che il DNA non contiene istruzioni che gli organismi eseguono come un hardware eseguirebbe un software, non c’è un determinismo assoluto; siamo, invece, di fronte a qualcosa che assomiglia di più a una partitura musicale, la quale definisce, sì, dei vincoli, ma poi chiede di essere interpretata. È così anche delle istruzioni depositate nel nucleo di ogni nostra cellula.