Hartmut Rosa, tutti noi ci sforziamo di vivere una «buona vita», anche se probabilmente ognuno di noi intende questo concetto diversamente. Ma cos'è «una buona vita», secondo lei?
Il problema è che tendiamo a spezzettare la nostra aspettativa sulla vita in vari elementi separati, tentando poi di ottimizzarli uno alla volta. Cerchiamo di adattare il nostro modo di vestirci, cerchiamo di non essere troppo grassi, di avere un salario che corrisponda alle nostre aspettative e di avere molti «Like» su Facebook. Questo sforzo però ci porta in modo abbastanza sicuro a non avere una vita soddisfacente. Perché, in realtà, tutto dipende invece dalla globalità del nostro essere, dall'insieme di quello che ci rende ciò che siamo. Un artista, ad esempio, avrà l'idea di una vita soddisfacente diversa da quella che può avere una dentista o un infermiere.
Quale sarebbe la strategia migliore?
Se noi percepiamo come riuscita la nostra vita, dipende dalla qualità delle nostre relazioni, quelle che costruiamo nel mondo che ci circonda. Per questo ci servono relazioni con persone e cose, che ci «dicano» qualcosa e suscitino in noi delle «risonanze». Dal mio punto di vista ci sono tre ordini di valori da considerare: quello sociale, cioè i rapporti con gli altri uomini, con i quali possiamo avere degli scambi, tra cui il partner, i bambini, gli amici; poi ci sono quelli materiali, cioè le interazioni con l'ambiente concreto che ci circonda, come gli animali, la musica, i libri, le auto; infine c'è l'ordine esistenziale, cioè il nostro rapporto con la natura, con l'arte, con la spiritualità. Se in tutti questi tre domini noi sperimentiamo il sentimento di una connessione vitale, allora avremo una vita riuscita.
Questa risonanza, cosa è in grado di sviluppare? E cosa muove dentro di noi?
Si tratta di un'esperienza molto individuale. È fondamentale che sia generata da qualcosa di esterno a noi, in grado di parlarci: qualcosa di «altro», che non possiamo controllare, e che forse non riusciamo nemmeno a capire completamente. Deve essere qualcuno che non pensa o sente per nulla come noi. Con un robot che conferma costantemente le nostre opinioni, ad esempio, non potremmo mai costruire questa risonanza. Le relazioni d'amore al contrario sono ideali, proprio perché noi non potremo mai avere completamente in pugno l'altra persona e lei ci lascerà sempre con qualcosa da scoprire. La stessa esperienza si prova ad esempio con gli animali domestici. In certi momenti il gatto si lascia accarezzare e fa le fusa, un attimo dopo ci ignora e non gli interessiamo più.
Questa imprevedibilità quindi è fondamentale?
Esatto. Se succedesse soltanto ciò che prevediamo, in noi non nascerebbe nulla, non si svilupperebbe questa risonanza. È fondamentale il nostro vissuto personale. Capita quando ci troviamo a pensare: «Questa esperienza mi sta dicendo qualcosa di speciale...». Ciò che per me è importante, ciò che porta qualcosa di nuovo nella mia vita, mi cambia. Oppure ciò che mi sopraffà dall'esterno, qualcosa a cui io devo arrendermi. Come essere costretti a salire su una montagna, senza poterlo rifiutare. Oppure come innamorarsi senza possibilità di salvezza. Simili spinte possono venire solo dall'esterno di noi. La risonanza può anche irritare e creare conflitto. Ad esempio all'interno della nostra stessa famiglia. Una relazione buona e vivace crea regolarmente momenti di risonanza, e di quando in quando anche di gioia, ma pure di conflitti che nel caso ideale possono condurre poi a una crescita.
Molte persone oggi non permettono al «nuovo» di raggiungerle. Le opinioni che non sono compatibili con le nostre sono rifiutate, a volte si preferisce quasi credere alle bugie.
Sì, ci troviamo oggi in un periodo di crisi che non è solo economico o politico, ma anche culturale. Molte persone sono arrabbiate e frustrate, perché sentono che la loro vita non soddisfa le loro aspettative. Ciò dipende anche da una mancanza di risonanze, proprio perché abbiamo disimparato ad ascoltare quello che abbiamo dentro e ciò che ci parla «da fuori». Tuttavia quello che ci serve è l'apertura, la disponibilità a lasciarsi prendere, a lasciarsi andare senza sapere dove questa apertura ci porterà, ma è una spinta che si deve assecondare.
Perché è così difficile?
Perché viviamo in una società che è votata in ogni suo aspetto alla crescita, all'ottimizzazione, alla razionalizzazione, a disponibilità, sicurezza e controllo. Questo ci riempie di stress e scatena paure: ciò è veleno per l'apertura mentale e la disponibilità al contatto. Se ci sono dei cambiamenti, li rifiutiamo, e reagiamo ponendoci invece obiettivi precisi, anche in ambito non professionale: «Voglio fare almeno 10'000 passi al giorno, oppure avere almeno 1000 seguaci su Instagram».
Per molte persone i cambiamenti sono un problema. Specialmente nel mondo del lavoro, che ci costringe regolarmente a subirli.
Proprio in quel contesto i cambiamenti si verificano di solito in modo molto unilaterale. Fa parte della risonanza anche il fatto che io possa rispondere con la mia propria voce, e replichi in questo modo alla mia controparte, in modo che ne nasca un dialogo. Nell'economia capita invece spesso si decida dall'alto su come debbono avvenire i cambiamenti, senza che ci sia nessuno scambio. Per questo molte persone si sentono snaturate nel loro lavoro. Dietro a quel problema si nasconde però qualcosa di fondamentale.
E cioè?
Viviamo in una società che a causa della spinta alla concorrenza è costretta all'ottimizzazione costante, perché altrimenti non riusciremmo a mantenere la nostra posizione nel mondo, sia come imprenditori che come dipendenti. E contemporaneamente impariamo che è pericoloso fidarci di una cosa di cui non sappiamo dove potrebbe portarci.
Visto che il nostro mondo del lavoro ci offre così poche possibilità di risonanza, ecco che salgono le nostre aspettative rispetto ai finesettimana, dove le cerchiamo in concerti, in passeggiate sulle montagne, seguendo le attività religiose. Questo è sufficiente?
No, e nella maggior parte dei casi non funziona nemmeno. Effettivamente cerchiamo di creare dei contesti alternativi al lavoro, piccole oasi da cui traiamo grandi aspettative. Ma spesso non si crea un vero scambio, perché siamo solo consumatori passivi. E ci manca comunque l'apertura all'inatteso, perché tutto è già stato programmato.
Cosa ci succede, se non proviamo delle esperienze di risonanza?
Ne nasce uno straniamento dalla nostra propria vita. Ci sono persone che hanno magari un buon lavoro, una relazione affettiva, una bella casa, ma nonostante questo si sentono vuote e slegate dal mondo. Sviluppano quindi frustrazioni o diventano cittadini arrabbiati. Sentono chiaramente che così non possono andare avanti. Si sentono ingannati, sentono che la vita con loro non ha mantenuto le sue promesse. È il sentimento di molti di coloro che votano per gruppi populisti. Questo risentimento infatti può essere ottimamente sfruttato in senso politico. La colpa dell'insoddisfazione vissuta viene riversata sui migranti, sugli stranieri, sull'establishment. Ma avere più soldi, creare maggiori divisioni o muri non saranno soluzioni utili per quel tipo di stato d'animo. La mancanza di risonanza provoca inoltre depressioni o Burn-out: entrambi stati in cui emerge il vissuto di un mondo non ci dice più niente, in cui essere vivi non ha più significato. Molte delle crisi che osserviamo oggi sono conseguenze di un bisogno di risonanza che non è stato soddisfatto.
Cosa ci vorrebbe per migliorare la situazione?
Bisognerebbe impegnarsi su due fronti: ognuno con sé stesso e tutti insieme per un cambiamento della politica, dell'economia e della società. Dobbiamo rifiutare la logica della crescita costante. Sarebbe certamente d'aiuto l'introduzione di un reddito di cittadinanza senza condizioni, di cui in Svizzera si discute già e per il quale sono già state fatte delle votazioni. Darebbe alle persone una consapevolezza materiale e esistenziale, e proprio questo permetterebbe loro di aprirsi e di darsi la possibilità di vivere esperienze di crescita, senza bisogno di avere aspettative su cosa succederà dopo quel contatto.
E ciascuno di noi cosa può fare per sé?
Condurre la propria vita tenendosi lontano dalla logica di efficienza e di crescita costante. Ad esempio non rinunciando a un lavoro soddisfacente per sceglierne uno meno appagante, solo per inseguire uno stipendio maggiore e un livello di carriera più elevato. Confidare nelle possibilità di incontro umano, non ignorare i senzatetto che vivono nelle sue vicinanze, ma guardarli e augurare loro una buona giornata, magari dopo aver dato loro un paio di franchi. Si creano in questo modo dei momenti di umanità, di riconoscimento. In quasi tutti i momenti della nostra attività quotidiano abbiamo piccoli momenti in cui invece che a ottimizzazione e crescita, possiamo dedicarci al contatto e alla risonanza. Dobbiamo usarli.
Ciò che riguarda la parte personale sembra fattibile, ma pensare di intervenire sulla parte istituzionale sembra un impegno senza speranza. Occorrerebbe andare a toccare le radici economiche del mondo.
Certo non è facile. Suona come pura utopia. Ma non è del tutto impossibile. Esistono contesti dove si potrebbero instaurare pratiche più semplici, ad esempio in ambito educativo, nei luoghi di cura, nel lavoro in agricoltura con gli animali. Lì esistono molto possibilità di rendersi utili senza creare grosse rivoluzioni. Qualcosa che si fa già, ad esempio nell'agricoltura biologica, dove ogni mucca ha il suo nome, e si crea una relazione, anche se rimangono animali da reddito.
Certo, ma a fronte delle logiche economiche che dirigono le aziende odierne...
Trecento anni fa il pensiero di poter volare era un sogno irreale, oggi è una cosa evidente. Non vogliamo quindi riuscire a modificare le nostre istituzioni in modo da permettere loro di darci una vita migliore? Non dovremmo arrenderci prima di aver provato.