L’eccessiva importanza data al breve episodio dell’occupazione di un’aula alla Scuola magistrale cantonale di Locarno – come qualche media ha fatto nella ricorrenza del cinquantesimo del Maggio 68 appena trascorsa – mi impegna a scavare più a fondo nei dati e nella memoria per riconoscere altri segni dell’eco che ebbe nella Svizzera italiana una crisi così estesa e profonda da coinvolgere tutta la meglio gioventù del mondo occidentale. (Chi ha tempo e voglia di conoscere da vicino il mondo di allora legga il volume dello storico francese Jean-Pierre Le Goff: La France d’hier. Récit d’un monde adolescent. Des années 1950 à Mai 68, Stock, Paris, 2018).
Allora, anche in Ticino, gli anni della guerra, dell’emigrazione e della povertà potevano dirsi finalmente alle spalle. Il benessere, nella forma della casa moderna: bagno, frigo e lavatrice, aveva raggiunto il mondo degli operai e degli impiegati. La politica gestiva grandi cambiamenti strutturali: gli impianti idroelettrici, le autostrade, la sanità ospedaliera, lo stato sociale, gli assegni di studio... Le mentalità, invece, soffrivano un ritardo che solo i più attenti, tra cui i filosofi letti dalle giovani generazioni, osavano denunciare. Le divisioni politiche del passato si riproducevano ad ogni scadenza. Un raggio di sole fu l’unione delle forze che il consigliere di Stato Franco Zorzi riuscì a formare attorno a progetti importanti come la galleria autostradale del San Gottardo e, in prospettiva, la legge urbanistica. Ma il nuovo faticava a farsi largo, tra interessi di parte e malavoglia di mettere in dubbio le solite certezze. Il Partito socialista aveva «sacrificato» il suo leader storico, Guglielmo Canevascini, ma l’attesa era durata così a lungo che i suoi figli spirituali si vedevano già incalzati dai nipoti, e reagivano male. Tra i conservatori era sempre meno sopportato il pigro riferirsi, nonché ai valori, ai torti subiti nel passato e tra i liberali cresceva il disagio per il modo spiccio – verticistico e clientelare – di gestire il potere. Acuirono la disaffezione alcuni «scandali» di cui la stampa di partito si era fatta eco senza risparmio di colpi bassi e di falsità, il più importante quello che costò nel 1967 il seggio e la salute al consigliere di Stato Angelo Pellegrini (ma alla Magistrale aveva lasciato il segno una polemica sul comportamento del direttore Speziali in una vacanza invernale). Maturarono così alleanze trasversali, come l’inatteso sostegno al «cappello ideologico» che la commissione speciale del Gran Consiglio aveva inserito (ma fu una brutta idea...) nel suo rapporto sulla legge urbanistica.
Una prima alleanza trasversale si era realizzata in occasione della sfortunata votazione cantonale sul voto alle donne del 24 aprile 1966. Altri moti, più o meno spontanei, si erano manifestati con riunioni e cortei, per il disarmo atomico o contro la guerra nel Vietnam. Ricca di frequentazioni e di amicizie personali, l’ARUSI – un ponte creato alla fine del 1966 per unire gli studenti universitari ticinesi oltre San Gottardo – aveva cercato di scavalcare le appartenenze ereditate e di unirli ai molti che non si riconoscevano nei partiti, respingendo il paternalismo dei «vecchi» che condizionavano in particolare «Lepontia» e «Goliardia».
Ricordandosi dell’ARUSI, Martino Rossi, di famiglia conservatrice, presidente di «Lepontia», scriveva l’11 dicembre 1967 una lettera a Paolo Bernasconi, principale attore di matrice liberale della creazione dell’ARUSI (con copia a Giorgio Canonica, militante socialista), in cui, ricordato il proposito di «incidere sul costume politico ticinese», proponeva di «prolungare e di estendere in qualche modo» quell’esperienza unitaria «al di fuori dell’ambito universitario» con la fondazione di un «club politico» che fosse in grado di «giungere a una unione della sinistra democratica». L’invito di Rossi fu raccolto e la prima riunione ebbe luogo al Morandi di Via Trevano il 29 giugno 1968, con la partecipazione di quasi cento persone.
Quale nome dare al movimento? Nella lettera di Rossi si facevano diverse proposte: «socialismo e democrazia», «nuova sinistra», «nuovo socialismo», «nuova democrazia», «democrazia e solidarietà», «socialismo 70», «democrazia 70», «sinistra democratica». Fu scelto: «MOP, Movimento di opposizione politica». Opposizione a che cosa: sarebbe stato il primo compito da affrontare, ma la passione induceva a semplificare: opposizione a tutto. Come?
Pompeo Macaluso dedica al MOP cinque pagine della sua Storia del Partito Socialista Autonomo (ed. Dadò, Locarno, 1997, 165-169), dando tutti i nomi dei destinatari della convocazione (nota 55, p. 174): nomi di persone già impegnate in politica, come Pietro Martinelli, Flavio Cotti, Mario Guglielmoni (tutti già membri del Gran Consiglio), autori conosciuti come Plinio Martini, architetti come Tita Carloni, e poi molti docenti, non molti sindacalisti: la maggioranza tra i venti e i trentacinque anni – che in quella occasione si ripartirono in gruppi di lavoro.
Già l’idea di partire non con una qualche «occupazione» ma con un approfondimento di analisi dice molto circa la composizione sociale del gruppo. I punti di riferimento culturali erano tuttavia poco definiti, la lettera di Martino Rossi a Paolo Bernasconi parlava di superamento della società divisa in classi, di uguaglianza culturale, economica, politica e giuridica. La strategia avrebbe dovuto essere «riformista e interclassista», accettando «gli strumenti del sistema e la sua riforma, essendo utopistica ogni altra via». Il maître à penser era André Gorz, fautore di riforme che modificassero i rapporti di potere e il funzionamento del capitalismo. Si sarebbe dovuto «sfociare su una organizzazione politica, su un nuovo partito», con un «lavoro con la base», questa da raggiungere all’interno soprattutto dei partiti socialista e conservatore e in particolare dei loro movimenti giovanili, anche con azioni pubbliche con cui si potesse raggiungere «anche i senza partito». Macaluso riassume parlando di «un generico e impetuoso anticapitalismo dalle più diverse ascendenze: marcusiana, gobettiana, marxista, cristiana».
Nel sunto (più che un verbale) redatto dopo la riunione costitutiva si constata infatti che «l’assemblea riunisce quasi esclusivamente intellettuali: una carenza cui si dovrà rimediare al più presto». Parve subito pacifico che «un nuovo partito non [avesse] alcun senso». I gruppi di lavoro erano incaricati di fornire analisi della situazione per la seconda riunione plenaria, il 1. dicembre 1968. Rapporti furono redatti sulla scuola, la pianificazione territoriale, quella economica, i mass media, il servizio militare, sui tre partiti politici principali del Cantone, sui sindacati e sull’impostazione generale del movimento. Ma la discussione prevista non decollò perché un intervenuto aveva subito proposto che si dibattesse «dei fatti della Magistrale» (era appena scoppiato il «caso Calame», l’assistente licenziato per avere incendiato la statua del Franscini). Chi avrebbe osato rispondere: siamo qui per le analisi? L’assemblea decise di pubblicare una presa di posizione ma anche di formare un comitato «che abbia la facoltà di intervenire». Come, dove? Più concretamente, una nuova assemblea, il 22 dicembre, decise di creare comitati d’azione settoriali, un gruppo di coordinamento, una segreteria tecnica.
«Per molti militanti della sinistra socialista – scrive ancora Macaluso (p. 185) – il rapporto con il MOP fu segnato da una permanente indeterminatezza». E cita Martinelli che scriveva: «Il MOP per il momento contiene molta zavorra: aderenti dei partiti borghesi tradizionali e del PST che lo frequentano solo per comperare indulgenze senza dover abbandonare il vizio». Perciò quando, l’8 e 9 febbraio 1969, la Direzione del Partito Socialista Ticinese decise di espellere i leader della sinistra, l’alternativa che gli espulsi scelsero non fu il MOP (o qualcosa di simile a un movimento di opinione) ma la fondazione di un nuovo partito. Il 20 aprile cadde in votazione la legge urbanistica (8948 sì, 19’285 no); sette giorni dopo fu costituito il PSA, Partito Socialista Autonomo. L’abbandono degli aderenti al PSA non solo privò il MOP degli elementi di maggiore esperienza ma creò uno spazio d’influenza maggiore ai più giovani, meno acculturati e più vicini ai movimenti operaisti d’oltre frontiera – come i militanti del MGP (Movimento giovanile progressista). Alcuni partiti «borghesi», d’altra parte, parevano aver capito la lezione della crisi. Giovani provenienti dal movimento giovanile conservatore accettarono il ruolo di riformisti dall’interno, preludio al cambiamento del nome del partito (da «conservatore» a «democratico»). Altri cattolici, non iscritti al partito, avevano fondato un «Centro studi e ricerche» animato da un giovane sacerdote, Mauro De Grazia. Erano nati la rivista «Dialoghi» e l’Associazione Biblioteca «Salita dei frati», in cui i fermenti del Sessantotto si declinavano in forma esclusivamente culturale.
Al MOP, le forze che non vollero aggregarsi al PSA né ritornare in braccio ai vecchi partiti, ma rimanere fedeli alle motivazioni di partenza, erano ormai insufficienti a tirare avanti. Vi fu una certa attività per alcuni mesi ancora, preparando nuovi rapporti sulla scuola e mostrando finalmente interesse per gli operai (una distribuzione di volantini il Primo Maggio) e per gli apprendisti (con una serie di interviste individuali, molto interessanti lette oggi). Vi fu anche la contestazione di una sfilata militare, il sostegno dato ad alcuni obiettori di coscienza...
Finì così, senza che nessuno veramente se ne accorgesse o ne organizzasse i funerali di Stato, un’esperienza generosa e coraggiosa. Se si facessero monumenti agli ideali, il MOP ne meriterebbe uno, anche piccolo, magari sul Monte Ceneri.