Le narrazioni dell’incertezza

Dialogo – Una riflessione sulla Medicina narrativa al tempo del Covid-19
/ 06.04.2020
di Sebastiano Caroni e Christian Delorenzo

Avrei voluto incontrare Christian Delorenzo di persona in Italia, dove si trova spesso, magari davanti a un buon caffè. Christian Delorenzo è uno specialista di narrazioni. Lavora come consulente letterario presso l’ospedale Chic di Créteil. All’Université Paris-Est Créteil insegna Medicina narrativa, e ha da poco tradotto il libro fondamentale sul tema: Medicina narrativa di Rita Charon, per Raffaello Cortina. Avrei voluto incontrarlo di persona, ma non si può, lo sappiamo. Così ci diamo appuntamento per una conversazione telefonica.  

S.C.: Jerome Bruner una volta scrisse che «le avventure accadono a chi le sa raccontare». Non so cosa ne pensi tu, ma trovo che il termine «avventura», permettimi il gioco di parole, sia un po’ avventato in questi giorni. Viviamo un momento segnato dall’incertezza, ci troviamo obbligati a rivedere i nostri piani per il futuro, a rinviare o annullare vacanze e viaggi, tanto per fare un esempio. E anche quando si tratta di cose semplici, dobbiamo muoverci fra una fitta selva di ma, forse, chissà. E, come se non bastasse, la mappa di questa nostra inedita esistenza può davvero cambiare da un giorno all’altro, ridisegnata da nuove regole, restrizioni, fatti, numeri, dati; magari scompaginata dall’irruzione dello spettro di cui parlano tutti. Tu che professionalmente ti occupi di come le parole aiutano a raccontare meglio la realtà, non trovi che sia piuttosto arduo descrivere, e raccontare, tutta questa incertezza? E che una frase come quella di Bruner, che normalmente sarebbe illuminante, diventa improvvisamente spinosa, sconsiderata, addirittura pericolosa?

C.D.: Anch’io ho qualche perplessità su «avventura». Etimologicamente, è un participio futuro: ciò che avverrà. Ma «avventura» ha una valenza positiva, che mi fa pensare ai romanzi di Stevenson. Peccato che non siamo in viaggio verso l’isola del tesoro. Se anche lo fossimo, il viaggio salterebbe per via delle misure di contenimento, e noi rimarremmo bloccati sul galeone. Racconterebbe questo uno Stevenson oggi? Non lo so. Ma so che siamo in una pandemia. Lo direi senza giri di parole. Ora, Arthur Frank sostiene che una delle tre modalità di racconto della malattia, a livello individuale, sia quella caotica. Non c’è deviazione temporanea dal corso della vita. Non c’è ricerca di senso. C’è una narrazione che fatica a organizzarsi, che si decostruisce. Mi chiedo se, con l’incertezza che ci circonda, non stia avvenendo questo, ma a un livello più ampio, sociale. E mi chiedo pure, per parafrasare Austin, quali cose facciamo, qui e ora, con le narrazioni del Coronavirus.

S.C.: Se capisco bene quanto dici, a questo punto mi porrei il seguente interrogativo: quali effetti ci aspettiamo dalle storie che raccontiamo a chi ci sta attorno? Con le parole mettiamo in ordine l’esperienza, mettiamo una cornice e infondiamo dei colori alla realtà che ci circonda. Nelle condizioni attuali, scegliere le parole giuste è più che mai fondamentale. Ti faccio un esempio. Se i media continuano a dirci che la situazione è tragica, affiancando queste parole con delle immagini altrettanto drammatiche, danno una certa immagine complessiva della realtà: indubbiamente fedele a quel che ci sta capitando. Ma questo significa che la speranza, la positività, e la creatività non debbano fare parte della storia ufficiale, non in questo momento? Non pensi che chi si trova nella posizione di raccontare la realtà, in una situazione delicata come la nostra, si trovi anche di fronte al difficile compito di raggiungere un equilibro fra pessimismo e ottimismo, fra dramma e speranza?

C.D.: Credo che ogni storia sia il risultato di una relazione. Quella tra chi scrive e chi legge. Aggiungerei un undicesimo diritto al decalogo di Pennac: Il diritto di leggere quello che si vuole. Non intendo solo libertà nella selezione, ma soprattutto libertà nella reazione e nell’interpretazione. Ogni lettore apporta qualcosa di fondamentale alla dinamica testuale: la propria lettura. Quindi, la mia interrogazione si sposta ulteriormente dal piano che indichi tu – il desiderio di provocare un certo effetto – a quello della consapevolezza. Potrei riformulare così la mia domanda: quali cose fa fare questa specifica narrazione? Tra l’altro, può valere sia per chi scrive che per chi legge. La speranza, la positività, la creatività, sì. Ma in astratto ognuno ha la libertà di rinvenire o costruirsi questi valori in un’esperienza di lettura. E poi una narrazione, anche se percepita come paurosa, potrebbe rivelarsi se non buona almeno efficace in un contesto d’incertezza. Perché la paura, magari, porta a tutelarsi.

S.C.: La paura induce a rispettare i divieti e le limitazioni, rendendo efficaci le misure di contenimento, ma temo che sia anche un’arma a doppio taglio, poiché spesso viene proiettata, inconsciamente, su delle categorie di persone come i runner, che diventato improvvisamente i nuovi untori, dei capri espiatori insomma. Trovo che la paura, come risposta all’incertezza, stia mostrando dei limiti abbastanza evidenti. A questo punto, quindi, io valorizzerei piuttosto un’esperienza a cui tu stesso fai riferimento: la consapevolezza. Anche se, a dire il vero, è più facile cedere alla paura che accedere alla consapevolezza. L’importante però è non rimanere prigionieri della propria paura, o di quella degli altri, ma cercare di trasformarla in qualcosa di più costruttivo. Il galeone sarà anche fermo in mezzo all’oceano, come dicevi tu prima: ma ai primi segnali di ripartenza è meglio che al timone ci sia la paura o la consapevolezza?

C.D.: Non vedo per forza opposizione tra consapevolezza e paura. Al timone non può esserci, in momenti come questo, consapevolezza della paura? Il cuore dell’oceano, quando pulsa per una tempesta, può fare paura persino a un pilota esperto. Ma anche rabbia, tristezza, disgusto. Non so tu, ma io mi scopro a viverle ogni giorno, queste emozioni. Credo che la consapevolezza aiuti a resistere, senza cercare il nemico di turno o cadere nella disperazione. Ma come accedere a questa consapevolezza? Non è facile, vero. La mia risposta è: scrivendo. La Medicina narrativa suggerisce vie e strumenti. I professionisti della salute, per esempio, potrebbero utilizzare il genere della cartella parallela per dare voce alle proprie storie. Rita Charon, che lo ha inventato, ne parla molto nel suo libro, a cui rimando. Sia chiaro: la mia non è un’ingiunzione. È un invito aperto. Magari, testimonianze dalla prima linea, se più condivise, aumenterebbero la consapevolezza della situazione. E magari l’esperienza dell’isolamento, nuova per tutti, acquisirebbe anche il senso di un contributo alla cura. Che non sia proprio questa la chiave, il rimedio all’incertezza? La consapevolezza di quanto sia fondamentale oggi aver cura. Per tornare a navigare domani, con il vento in poppa. Chissà.

S.C.: Chissà.