Il Ticino offre moltissime occasioni di incontri per neo genitori. Ci vanno quasi sempre solo le mamme. Faccio un giro in due strutture, per chiacchierare con loro. Come si sono organizzati in famiglia? Certe coppie hanno bisogno di due stipendi, altre no, qualcuno può scegliere quello che più gli si addice, qualcun altro si sente imprigionato in una situazione che non vorrebbe.
Raccolgo storie, qua e là, poi parlo con un’esperta.
Vanessa: «A me sarebbe piaciuto riprendere il lavoro. Anzi, avevo anche la mia attività in proprio, creata da me. Mio marito però ha un lavoro che non gli permette di abbassare la sua percentuale, e così io sono stata costretta a stare a casa con i tre bambini. Forse, facendo salti mortali e portandoli nelle strutture come culla, preasilo o mamma diurna, ce l’avrei fatta. Ma non è la stessa cosa. Io, se stessero con mio marito non mi farei nessun problema a lavorare qualche giorno. Se però devo darli a un professionista, mi sento più in colpa, come se tornare alla mia attività fosse un lusso...
Mio marito è impiegato cantonale. Ha chiesto di ridurre la percentuale lavorativa per stare con i bimbi ma non glielo hanno permesso, mentre con lo stesso ruolo in Svizzera interna o romanda potrebbe lavorare a tempo parziale. In Ticino non è ancora possibile, siamo indietro...»
Ilaria: «Noi abbiamo fatto la scelta di lavorare entrambi a metà tempo, già prima di avere figli. Tutti e due volevamo del tempo per stare insieme, per coltivare ognuno i suoi progetti creativi e poi adesso anche per occuparci dei bambini. Viviamo fuori dai centri urbani e questo ci permette di avere un appartamento bello e spazioso che in una città sarebbe troppo caro. Ora lavoriamo tre giorni a testa e i piccoli stanno o con noi o con i nonni; se non avessimo avuto qui i nostri genitori sarebbe stato difficile, ma non impossibile, perché esistono le mamme diurne e avremmo potuto avvalerci di quel servizio fino all’età del preasilo o dell’asilo. Credo però che la fortuna più grande sia aver trovato due datori di lavoro che ci permettono questa vita in cui non c’è solo lavoro...»
Stefania: «Mi arrabbio quando sento i discorsi del tipo ‘peccato che molte donne non tornano al lavoro’, come se fare la casalinga e stare a casa con i figli fosse degradante. La gente crede di sapere cosa desidera una donna. Ora facciamo figli sempre più tardi, lavoriamo dieci-quindici anni, e poi possiamo decidere di cambiare esperienza, se il planning familiare ce lo permette: io ho avuto una figlia sola e mi andava di fare la mamma a tempo pieno. Magari quando sarà grande cercherò di rientrare nel mondo del lavoro, non lo so; non credo sia impossibile anche se non mi aspetto che sia facile. Ma non si pensi che siamo isolate. Partecipo a molte attività con altre mamme, organizziamo spettacoli teatrali, feste, gite, visite al museo e in pedalò e mille altre cose. E a chi mi chiede perché ho studiato tanto rispondo: per mia figlia!».
E poi c’è Maddalena, che lavora lei e il marito è casalingo. Felice, però le fa strano quando sono ai pic-nic con gli amici e i suoi bambini sono gli unici che se si fanno male corrono dal papà. E tante, tante altre donne, ognuna con la sua storia e i suoi desideri e i suoi successi.
Parlo di tutto questo con Danuscia Tschudi, ricercatrice alla Supsi che si occupa proprio di temi relativi a lavoro e genere, percorsi formativi e professionali in conciliazione con gli impegni familiari. Mi dà da leggere alcune ricerche dell’Ufficio di statistica che dimostrano come la questione della conciliazione lavoro-famiglia sia ancora una questione prettamente femminile e non di coppia. In Ticino un terzo delle famiglie segue il modello detto «tradizionale» (lui lavora, lei sta a casa con i figli), un 41% rientra nello stile «neotradizionale» (lui ha un’occupazione remunerata al 100% e lei a tempo parziale) e il 27% invece sono i casi in cui entrambi lavorano a tempo pieno. Anche nel resto della Svizzera, sebbene ci siano più donne che lavorano, non ci sono molti papà che lavorano meno. Famiglie come quella di Ilaria, in cui entrambi lavorano a tempo parziale sono solo il 2,3%. Perché?
Premettiamo che stiamo parlando di lavori gratificanti: i genitori con una bassa formazione, o lavorano entrambi al 100% o la mamma sta a casa. Più invece una persona è formata più ha possibilità di ottenere un lavoro ben retribuito, che dia soddisfazione e con un datore di lavoro disponibile a concedere flessibilità sui tempi di lavoro.
Sentiamo Danuscia Tschudi: «Il tempo parziale maschile è ancora molto poco diffuso. Le attese sociali sono maggiori sulla carriera dell’uomo che su quella della donna. Tuttavia sono sempre più numerosi gli uomini delle nuove generazioni che vorrebbero partecipare di più alla vita di famiglia diminuendo il proprio orario di lavoro. Capita però che si sentano a disagio a chiederlo, perché vi sono stereotipi che associano il tempo parziale maschile alla pigrizia o a un disinteresse verso la carriera professionale. I datori di lavoro sono molto meno propensi a concedere un tempo parziale agli uomini che alle donne. Ce ne sono un po’ di più tra i docenti, nell’amministrazione pubblica e nelle organizzazioni parapubbliche, ma la percentuale è ancora molto bassa.
In realtà anche lavorando a tempo parziale è possibile avere posizioni di responsabilità: dalla pratica e da diverse ricerche emerge che è fattibile con tempi parziali alti a partire dal 70% o praticando il Jobsharing, cioè condividendo con qualcun altro le mansioni dirigenziali. Vi sono numerose coppie nelle quali lui lavora al 100% e lei al 60%: se facessero un 80% a testa si aprirebbero maggiori opportunità per condividere i compiti familiari e per sviluppare il proprio percorso professionale. Credo che si possa favorire un maggiore equilibrio tra lavoro e famiglia, tra uomo e donna e si possano evitare situazioni come quella riportata da Vanessa. Come? In due modi: vincendo gli stereotipi che associano il tempo parziale esclusivamente alle donne e lo ritengono impossibile per posti di responsabilità, e proponendo soluzioni concrete nelle organizzazioni e nelle aziende riguardo al tempo di lavoro».
Molti pensano che la mentalità ha bisogno di tempo per cambiare: in fondo non sono che due, tre generazioni che sentono bisogni di parità. Ma anche qui, Danuscia Tschudi ci riposiziona nella Storia: «Cinquant’anni fa si diceva: ci vuole tempo per i cambiamenti sociali. Sì, è vero. Ma qualcosa nel frattempo si può fare: il mondo del lavoro può attivarsi per precedere i cambiamenti di mentalità. Per esempio, a fine marzo abbiamo presentato i risultati della ricerca-azione Jobsharing: un’opportunità organizzativa per la gestione del tempo di lavoro in ospedale, realizzata in collaborazione con l’Ente ospedaliero cantonale per studiare la gestione del tempo di lavoro dei medici e la possibilità di introdurre il modello del Jobsharing. In ultimo vorrei aggiungere che è importante che anche il lavoro non retribuito sia riconosciuto e non svalutato. Il problema è ancora una volta culturale. Una mamma che ha un’attività professionale ha spesso la giornata doppia, a casa e al lavoro ma anche una casalinga lavora, eccome, pur non essendo retribuita. Ho sentito bambini dire “Mia mamma non lavora”... è una frase che non corrisponde alla realtà. Credo che l’educazione possa fare molto, sia per valorizzare il lavoro non retribuito sia per permettere reali scelte familiari e professionali. Inoltre si può anche operare sul piano delle assicurazioni sociali: per esempio la disoccupazione riconosce un allungamento del termine quadro per la riscossione della prestazione in caso di periodo educativo».