In questo viaggio vogliamo parlare di chi non sta al centro delle cose, ma resta in disparte. Da quell’angolazione, però, vede altro, rimesta i fondi di quell’edificio che chiamiamo società. Vogliamo ficcarci il naso, raccontare le loro storie, ascoltarli, prenderli per mano, cercare di capirli, riportarli a voi lettori. Spalancare, attraverso questi racconti, nuove prospettive sul nostro territorio.
Appena entri, la prima cosa che vedi e che ti colpisce sono tavoli. Tavoli con attorno sedie, tavoli lunghi, pronti a radunare cinque, sei, sette persone; tavoli che, come presenze mute, sottolineano il materializzarsi di un tempo altro, che non osserva le leggi della realizzazione personale, della rincorsa alla carriera, dello sgomitare per il proprio posto nel mondo. Qui c’è un tempo che si addensa, che sa accogliere il pianto e la fatica, la rabbia, qui ci sono un tempo e uno spazio che si srotolano davanti agli occhi degli ospiti, alle loro mani, ai gesti, ricordando due parole antiche, oggi un po’ stranianti, avulse come sono dal contesto attuale: pazienza, attesa.
«Io qui non ci sto bene, voglio tornare da lei – dice Giorgio (nome di fantasia, così come tutti gli altri, a parte un’eccezione) – è lei che mi ha denunciato, è lei che mi ha buttato fuori di casa, ma io voglio tornare da lei, a casa, perché la amo». Giorgio è a Casa Astra da qualche settimana e ha alle spalle un passato di alcolismo e di violenze domestiche. «Bevevo, sì, è vero: ma quando lavori sui binari per anni e vedi suicidarsi cinque persone, le vedi buttarsi sotto il treno, non lo dimentichi tanto facilmente». Parla e piange, Giorgio, piange e parla, al punto che tutto il racconto diventa una sorta di pianto ritmato, un pianto dove talvolta è difficile separare, discernere fra realtà e fantasia, bene e male.
«Mi hanno allontanato, dicono che l’ho picchiata. Ma era lei che alzava le mani su di me! Ho denunciato l’accaduto alla polizia e non mi hanno creduto. Le avrò dato al massimo uno schiaffetto; non so da dove provenga quell’occhio nero, che mi han mostrato in foto». Verrebbe da credere che sia tutto frutto della sua mente, che il colpevole sia solo lui, ma l’assistente sociale conferma la sua teoria: la casa di Giorgio era un nido di malattia e violenza (la stessa moglie prendeva farmaci pesanti), infine c’è stato un episodio grave. Ora lui una casa non ce l’ha più, e passa le giornate con la cagnetta di un’altra ospite: la coccola, la accarezza, la porta a passeggio. Poi si siede e l’unico rosario che conosce, che recita in silenzio, è: pazienza, attesa.
Quel che mi viene da pensare non come giornalista, ma come essere umano, è che non siamo nessuno per giudicare. Lo dico anche a Francesco, che racconta tutto a scatti, tende a giustificarsi e allo stesso tempo a colpevolizzarsi, come Giorgio. Sono io che devo chiedergli, a fronte di racconti sull’uso e sul presumibile spaccio di droga, del suo passato, di come è cresciuto. «Venivamo dal Sud – mi racconta – mio padre era manesco e si riempiva di debiti. Mia madre si spaccava la schiena come donna delle pulizie, per rimettere a posto le finanze». Un ambiente difficile, che non crea le basi per una serenità futura: aggiungici le battute razziste a scuola, e il gioco è fatto. «Picchiavo gli altri ragazzini, perché mi davano del terrone. Un giorno, in terza elementare, ho spinto un compagno giù da un muretto e si è fatto male. La maestra è stata intelligente: ha chiamato le due famiglie e ha detto alla mamma ticinese: dovete smetterla di educare i vostri figli a insultare gli italiani, ci stanno dando una mano a costruire il Paese».
Francesco ammette di aver bisogno di fare ordine, di schiarirsi le idee. «Ho avuto un tutore, ma è andata malissimo; mi faceva stalking, l’ho dovuto denunciare. Ora ho bisogno di riposo, ho i ricordi appannati: sono pittore e so fare bellissime decorazioni, mi piace leggere e studiare, vorrei fare una riqualifica». Glielo auguriamo tutti. Prima di salutarlo, non mi dimentico di dirgli che è stato coraggioso a raccontarmi tutto.
Poi è il turno di Mariano (nome vero), che arriva dalla Romania, ed è cresciuto in orfanotrofio, con un’educazione rigidissima; appena ti ribellavi, botte da orbi. Sono queste che ha trovato anche in Italia, nei vari dormitori che l’hanno ospitato dopo che ha seguito una donna di lui innamoratasi, una volontaria partita dalla Romania, subito rivelatasi inaffidabile e incongruente. Così inizia «la vita agra» di Mariano, che passa da un dormitorio all’altro, senza tregua, alternando anche momenti di clochardisme. «Non ce la facevo sempre a stare nei dormitori. Sono tutti violenti, devi fare quello che vogliono loro e non fiatare. Ma io non ce la faccio a stare zitto, se vedo qualcosa che non va». A Mariano piace il profumo. Perfino quando dormiva in tenda, trovava il modo di lavarsi e di essere sempre a posto, «la gente, quando le dicevo che vivevo per strada, non ci credeva». Poi c’è stato un intervento, al Niguarda, un episodio sul quale non vuole soffermarsi. «Sono cose mie – mi dice fiero – ma quel momento mi ha segnato e sono caduto in una forte depressione. Non vedevo vie d’uscita in Italia e ho pensato che dovevo emigrare all’estero». Inghilterra: no. Amsterdam: no, «troppa droga». Allora Svizzera. E quindi Casa Astra. Così Mariano è arrivato alle nostre latitudini, portando con sé una storia di dignità e coraggio, di soprusi e riscatti. Adesso attende, spera un giorno di poter fare il parrucchiere in un negozio tutto suo, e nel frattempo ringrazia Casa Astra. «Mi hanno dato il sorriso, la loro pazienza e la voglia di vivere; quando uscirò di qui, continuerò ad aiutarli».
Alim vive in Svizzera da trent’anni, e da trent’anni lavora: da quando, cioè, si è trasferito dalla Turchia, suo Paese natale. È andato tutto liscio fino a pochi mesi fa: due figli, una moglie e un divorzio. Poi, qualche forza misteriosa ha rovesciato la tavola piana su cui aveva basato la sua esistenza. Un incidente in auto, la revoca della patente, quindi il licenziamento (faceva l’autista); e poi, il mancato rinnovamento del permesso C per cavilli burocratici. Senza soldi, senza la possibilità di cercare un nuovo posto di lavoro, Alim si appoggia a qualche amico (i figli stanno in Svizzera francese, sono giovani e si stanno costruendo un futuro; non vuole esser loro di intralcio); poi non ce la fa più. Ultima spiaggia, Casa Astra. «Son tranquillo – dice – perché se non mi han cacciato fino ad ora, non mi cacceranno più». Vive sospeso, Alim, dice di aver sempre lavorato, sempre pagato le tasse, e di trovarsi con un pugno di mosche in mano; è arrabbiato, anche con chi lavora dietro gli sportelli, perché non mostra nessuna umanità. «Non ho mai pensato all’alcol e alle droghe; non mi piacciono quelle cose, e poi non avevo tempo, perché lavoravo». È arrivato in Svizzera seguendo il padre, che lavorava nei Grigioni. Lo chiama «il mio povero padre». «Potrei pensare di rientrare in Turchia, ma che cosa farei? Ormai anche lì sono uno straniero».
Si sentono stranieri dappertutto, gli ospiti di Casa Astra, sono frastornati, scivolano sui margini, li fanno propri, e poi li perdono di nuovo. Ma quello di cui parlano sempre, tutti, è lo strano abisso che si viene a creare sul confine fra bene e male. «È una scelta – dice Mariano. Io scelgo di non fare del male agli altri». Non sono cattivo, sembrano dire, non è colpa mia. Pazienza, attesa. E forse, in fondo, un po’ di speranza.
Io e il collega Stefano usciamo di lì con la stessa consistenza della nebbia, non commentiamo nulla, ognuno si ficca in auto e torna a casa. Le loro parole non ci abbandonano, rimangono lì, a girarci in testa, come animelle fragili di un Purgatorio che è lì, dietro l’angolo.