L’inverno è arrivato, l’umidità persistente pure, con magari rapidi cambiamenti di temperatura, dal caldo esagerato al vento freddo o alla pioggia. Questi sbalzi climatici accentuano in parecchie persone, non necessariamente solo negli anziani, dolori articolari, muscolari, reumatici, e in maggior misura quando sono presenti forme varie di artrosi, di artrite o altre degenerazioni dell’apparato muscolo scheletrico che possono riguardare generalmente schiena, ginocchio, anca, spalle.
Il clima non è certo il solo fattore responsabile dell’accentuarsi di questi dolori, ci sono ad esempio anche gli anni che avanzano, generando, come succede per gli ingranaggi di una macchina, una riduzione dello spessore e una perdita di elasticità delle cartilagini delle articolazioni, ciò che può produrre tensioni e contratture derivanti da prolungate posture viziate, o strascichi post-traumatici dovuti a incidenti di vario tipo.
Sono molte le tipologie dolorose, da quelle serie o croniche che impongono di essere seguite costantemente dal medico, a quelle medio gravi o leggere che si fanno vive solo a intermittenza, magari non senza avere prima rovinato una giornata felice. Da questi disturbi spiacevoli e fastidiosi ci si vorrebbe immediatamente liberare, è allora forte la tentazione di consegnarsi totalmente al primo farmaco che prometta di farlo; abbiamo gli analgesici che tolgono il dolore, curano il sintomo ma non risolvono il problema alla radice, le cause che lo producono; poi abbiamo i ben noti antinfiammatori non steroidei, detti FANS (cioè farmaci non cortisonici), che se usati in modo continuativo in certi casi possono dare assuefazione e richiedere dosi sempre maggiori, e che se da un lato bloccano dolore e infiammazione dall’altro possono agire sui meccanismi di difesa del nostro organismo e indebolirlo.
Anche se si producono oggi provvidenziali farmaci antinfiammatori sempre più «mirati» – cioè tollerati a livello gastrico e da organi sensibili come fegato e reni – l’attuale ricerca farmacologica ancora non è riuscita a produrre il farmaco ideale, quello totalmente esente da rischi e controindicazioni. Pare che in tutta Europa si abusi di questo tipo di medicamenti, mentre occorrerebbe prudenza: vanno considerati come amici carissimi e in grado di dare aiuto, ai quali però non è mai il caso di concedere eccessiva confidenza perché potrebbero farsi invadenti e rivelare un lato ben diverso.
Più viva che mai, oggi la fitoterapia si affianca ai farmaci di sintesi e ci suggerisce che non esiste un’unica via per combattere la sofferenza, ma abbiamo a disposizione soluzioni diverse. Le piante medicinali per questa categoria di malanni, che silenziosamente attendono di donarci le potenzialità curative e le energie da sempre contenute nella natura, sono molte. Si deve essere informati, imparare a conoscerle con la paziente sperimentazione personale, senza mai tralasciare il consiglio del medico, del farmacista o dell’erborista, (non tutto ciò che è naturale è innocuo!) per scoprire la pianta indicata per noi.
Sarebbe difficile elencare tutte le piante ad azione antinfiammatoria e analgesica, ne citiamo solo alcune: abbiamo ad esempio l’Arnica con i suoi molteplici usi, interni ed esterni, (nel Medioevo considerata un potente afrodisiaco da Santa Ildegarda di Bingen); abbiamo il Salice e la Spirea ulmaria dalle differenziate proprietà medicinali, fra i loro principi attivi possiedono quello di trasformarsi nel nostro organismo in acido salicilico, lo stesso che troviamo nell’aspirina, e non aggiungiamo altro; vi è l’Equiseto che si prende cura delle nostre articolazioni, il Ribes nero che agisce nelle infiammazioni locali. Vi è il Frassino, albero sacro presso i Celti irlandesi, il cui legno era usato per dare forza ai giovani guerrieri e curava l’artrite nella medicina popolare; e poi vi è ancora la Boswellia, potente pianta antireumatica originaria di India e Cina, o l’Ashwagandha, «spezia miracolosa dell’India» che riduce le tensioni muscolari e nervose che possono aggravare i dolori.
Ma un’altra pianta, riscaldante per eccellenza, di recente introduzione in Occidente e molto usata in Germania, rientra nella medicina etnobotanica: protegge e disinfiamma le articolazioni l’Artiglio del diavolo (Harpagophytum procumbes, dal latino harpàgo = uncino di arrembaggio e dal greco phytòn = pianta; procumbes in latino significa giacente, poiché la pianta cresce appoggiata al terreno). Il poco rassicurante nome si deve a quattro terribili appendici uncinate dei suoi frutti ovoidali che, se penetrano nelle zampe o nel corpo degli animali, li obbligano a una danza indiavolata; i roditori possono rimanerne impigliati e morire di fame.
Cresce in ambienti aridi e desertici, presso le sabbie rosse e le steppe nelle regioni del Sud Africa, in Namibia o nel Madagascar, che ne sono i maggiori fornitori. Scoperta dai missionari nel 1700, è stata diffusa in Europa da un contadino tedesco che nel 1954 ne imparò l’uso da un guaritore aborigeno. Le radici, tagliate ed essiccate rapidamente sul posto di raccolta, hanno proprietà antiinfiammatorie, antidolorifiche, antiartritiche, ed è indicata per reumatismi, sciatica, inappetenza, osteoporosi, per alleviare i dolori mestruali e in veterinaria.
In un recente studio su pazienti affetti da osteoartrite alle ginocchia e al fianco, 2600 mg/die di estratto sono risultati efficaci come quelli di un noto antiartritico nella cura di dolore e disabilità, con riduzione degli effetti collaterali indotti dagli antinfiammatori non steroidei. L’Artiglio del diavolo esiste come infuso, tintura madre, o capsule, e per uso esterno in forma di unguento.