Cinquantamila anni fa non eravamo i soli umani sulla Terra, con noi c’erano i Neanderthal, l’Homo di Denisova e probabilmente un’altra specie. L’età della nostra specie è di circa 200’000 anni. Siccome l’uomo di Neanderthal apparve più o meno 400’000 anni fa e si estinse circa 30’000 anni fa, è chiaro che – dal punto di vista dell’evoluzione – siamo una specie relativamente giovane. L’uomo di Denisova (dal nome di alcune grotte dei Monti Altaj in Siberia), anch’esso più longevo di noi, si separò dall’uomo di Neanderthal circa 300’000 anni, e ci fu anch’esso accanto per varie migliaia di anni.
La svolta negli studi sulle specie umane è stata data nella metà degli anni Novanta dal biologo molecolare svedese Svante Pääbo, che per primo si dedicò all’esame sistematico del DNA antico, allo scopo di ricostruire genomi di specie estinte. Direttore del dipartimento di Genetica evoluzionistica del Max Planck Institute di Lipsia, fu nel 2006 che Pääbo annunciò di avere in programma la ricostruzione dell’intero patrimonio genetico dell’uomo di Neanderthal. Sulla rivista «Science», nel maggio di nove anni fa, Pääbo e i suoi colleghi pubblicarono una sequenza sperimentale del genoma dell’uomo di Neanderthal.
Il racconto della lunga ricerca che ha condotto Pääbo a sequenziare il DNA dei Neanderthal e dei Denisova è narrato nel suo libro intitolato L’uomo di Neanderthal. Alla ricerca dei genomi perduti. È sulla base di questo lavoro d’indagine condotto tra la metà degli anni Novanta e il decennio successivo che gli studi sui genomi antichi hanno potuto conoscere l’accelerazione che caratterizza l’odierna ricerca in questo campo.
La prospettiva che guida la ricerca di Svante Pääbo è antropologica. Fondando il suo dipartimento presso il nascente Max Planck Institute di Lipsia, il biologo svedese voleva rispondere a una sola domanda: «che cos’è che rende unici gli esseri umani?». Rispetto ad altri studiosi di specie umane estinte, Pääbo, però, non va alla ricerca di manufatti, di sepolture, di iscrizioni o altro, bensì alla ricerca delle differenze del nostro genoma rispetto a quello di altri ominini, con il duplice scopo di ricostruire l’albero delle specie umane, e di individuare quelle mutazioni genetiche che hanno permesso alla nostra specie di sviluppare le abilità adattative che le hanno consentito, in soli 50’000 anni, di lasciare l’Africa e raggiungere ogni angolo della Terra.
Quando cominciò le sue ricerche sul genoma dell’uomo di Neanderthal, Pääbo non era affatto convinto che questo avesse lasciato traccia nel nostro DNA, nutrendo il forte sospetto che, nonostante la stretta convivenza per alcune migliaia di anni, esemplari di Sapiens Sapiens non si erano mai accoppiati con i Neanderthal – o comunque non con quella frequenza che avrebbe potuto causare un flusso di geni fra le due specie. I risultati del sequenziamento del DNA mitocondriale estratto da ossa di Neanderthal nel 1997, avevano rafforzato Pääbo nel suo scetticismo: il DNA degli organelli (i mitocondri) delle nostre cellule dimostrava che il comune antenato a tutte le popolazioni umane oggi sul pianeta, risalente ad un periodo compreso tra i 200’000 e i 100’000 anni fa (la cosiddetta Eva mitocondriale), è più recente dell’antenato che abbiamo in comune con l’uomo di Neanderthal, il quale, quindi, si trova su una differente diramazione dell’albero evolutivo degli ominini. Sennonché, Pääbo sapeva che la sua analisi non poteva limitarsi al DNA mitocondriale: occorreva sequenziare il DNA contenuto nel nucleo delle cellule.
Mentre il Progetto Genoma umano stava giungendo a compimento, producendo con regolarità nuove mappe del nostro genoma, il problema che Pääbo e il suo gruppo dovettero affrontare era l’estrema fragilità del DNA antico. Il Progetto Genoma studiava il corredo genetico di una specie vivente; ben altra questione era poter accedere al DNA di una specie estinta. Negli anni Novanta c’era chi favoleggiava sul DNA dei dinosauri o su quello degli insetti conservati nell’ambra: il riesame di quelle indagini, invariabilmente, dimostrò che i ricercatori stavano studiando DNA contaminato e non quello di specie estinte. Il problema è che, dopo la morte di un organismo, il DNA si deteriora rapidissimamente.
Il gruppo di Pääbo giunse a produrre la prova di un flusso di geni dai Neanderthal alla nostra specie alla fine del 2009, sequenziando DNA nucleare. Il risultato lasciò senza parole l’intera comunità scientifica: i Neanderthal avevano, sì, dato un contributo genetico agli esseri umani moderni, ma solo a quelli fuori dell’Africa. Secondo l’ipotesi di Pääbo, ciò era stato possibile perché, avendoci i Neanderthal preceduti nell’uscita dall’Africa, li incontrammo nel Medio Oriente in un periodo fra i 100’000 e i 50’000 anni fa. In quelle zone, fummo a lungo in contatto con loro, permettendo in tal modo uno scambio di geni tra le due specie di ominini e ottenendo il risultato che, oggi, il 2,5% del DNA delle popolazioni che vivono fuori dell’Africa è neandertaliano. In questa parte di DNA, per esempio, ci sono i geni che codificano per rendere bianca la pelle e quindi più efficiente nella produzione di vitamina D nelle zone lontane dall’equatore. Nella migrazione lungo le coste orientali per raggiungere la Melanesia incontrammo poi i Denisova, i geni dei quali sono presenti in una misura che varia dall’1,9% al 3,4% nei melanesiani di oggi.
Negli ultimi cinque anni, da quando cioè lo studio dei genomi antichi ha conosciuto una forte accelerazione, alla domanda «che cosa ci rende umani?» non sta solo rispondendo la paleontologia genetica di Svante Pääbo ma anche una nuova antropologia che non ha ancora un nome e che, provvisoriamente, potremmo chiamare «antropologia genetica», la quale si prefigge lo scopo di descrivere le peculiarità della nostra specie, non solo studiandone il genoma rispetto a quello di altri ominini o di altri primati, ma anche di riprodurre in laboratorio tessuti di specie estinte. Si sviluppa in questa direzione il più recente lavoro di ricerca di Svante Pääbo, il quale ha annunciato che intende produrre organoidi, partendo da cellule staminali contenenti geni neandertaliani, con l’obiettivo di creare piccole reti neurali: «vedremo se possiamo trovare delle differenze nel funzionamento delle cellule nervose che possano costituire la base delle capacità cognitive “speciali” degli esseri umani» – e, forse, comprendere che cosa, nel nostro cervello, ha fatto di noi la specie dei «soppiantatori».