Arriva per ogni genitore il momento in cui il proprio figlio gli rivolge una delle tante domande sull’affettività o la sessualità. E l’adulto, spesso, non sapendo cosa o come rispondere, esce dall’impasse scansando l’argomento. Gli resta però l’amaro in bocca e, magari, la voglia che qualcuno lo possa guidare nella scelta delle parole giuste per spiegare amore e sessualità ai propri bambini.
Attorno a queste tematiche ruotava «Mamma, papà? Che cos’è l’amore?», conferenza tenuta dai coniugi Barbara Tamborini (psicopedagosista) e Alberto Pellai (medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva), la seconda del ciclo «Ah! L’amore!», organizzato dalla Società ticinese di scienze naturali in collaborazione con L’ideatorio dell’Università della Svizzera italiana e l’Accademia di scienze naturali.
Per cominciare a riflettere attorno a questa domanda, Pellai illustra i tre livelli evolutivi sui quali si organizza il nostro cervello utilizzando l’immagine di un casa: «il piano terra è quello della sopravvivenza e lo condividiamo con i rettili, tanto che viene chiamato “cervello rettiliano”; qui trova spazio una funzione meramente procreativa. Al piano intermedio si trova il sistema limbico, sede del sentire, e quindi delle emozioni e dell’eccitazione. È grazie a questo livello che la sessualità ci regala sensazioni molto forti. Al piano superiore, prerogativa degli esseri umani, troviamo le funzioni cognitive. Esse ci consentono anche di trasformare il fare sesso in fare l’amore, dal momento che i gesti che compiamo sono coniugati a quello che sentiamo e ai significati che condividiamo all’interno di una relazione». In una prospettiva educativa, dovremmo far capire ai nostri figli come la sessualità abbia una propria funzione in ognuno di questi piani, cercando al tempo stesso di trasmettere loro una visione nella quale essi siano il più possibile integrati. E in questo un ottimo aiuto è l’esempio dato dai genitori: «Desiderio e sintonia profonda devono arrivare nella vita dei ragazzi attraverso quello che osservano», commenta Pellai, ricercatore e docente presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano.
Quando si tratta però di parlare dell’amore ai nostri figli, nostro malgrado ci spaventiamo. E quando la sessualità compare, abbiamo l’istinto di nasconderla. Come quando compaiono scene di sesso alla televisione e cambiamo canale o pronunciamo frasi del tipo «Questo non va bene per te». Così facendo si entra nel codice del silenzio e del non detto.
Questo vale ancora di più per i maschi: «Le nostre figlie nel 90-95% dei casi parlano con le loro mamme di sviluppo e sessualità e vengono preparate al menarca, mentre la stessa percentuale di maschi arriva allo spermarca (prima emissione di sperma) nel totale silenzio educativo dei genitori», continua l’esperto. Lasciati soli con le loro domande, i maschietti entrano facilmente in territori insidiosi. «Numerose ricerche ci dicono che la grande maggioranza dei ragazzi tra gli 11 e i 14 anni frequenta siti pornografici. Si tratta di una vera emergenza educativa se si pensa a cosa significhi saturarsi l’immaginario a questa età con visioni che mostrano una sessualità al di fuori del principio di realtà e di qualsiasi contesto narrativo, dove nulla lascia pensare alla dimensione dell’intimità, che invece è importante per generare un modello relazionale, emotivo e di sessualità condivisa», spiega Pellai.
Non solo i maschi, anche le bambine vanno a cercare le risposte che non ricevono dagli adulti di riferimento, e lo fanno su google. «Il problema è che si perde il concetto di “fase specifica”, secondo il quale dosiamo, selezioniamo, offriamo parole, immagini e contenuti che si sintonizzano con l’attuale capacità di integrazione emotiva e cognitiva dei nostri figli», spiega lo psicoterapeuta: «su internet invece la stessa parola immessa da Caterina di 10 anni, Pietro di 12, Alice di 15 e Jacopo di 18 riceve esattamente le stesse risposte, anche se tra i bisogni educativi della figlia minore e del figlio maggiore passano ben tre fasi dell’età evolutiva». Inoltre, dietro il motore di ricerca non c’è un’équipe di educatori ma di strateghi del marketing. «Ci troviamo quindi con dei bambini che ricevono una risposta completamente inadeguata per i loro bisogni di crescita ma perfettamente adeguata ai bisogni del mercato. Dove la dimensione non è quella del fare l’amore ma del fare sesso e quindi totalmente pulsionale, impulsiva, eccitatoria», continua Pellai.
Il più grande aiuto per districarsi in questo delicato contesto è il dialogo. «È un filo rosso che continua nel tempo, nella disponibilità di parlare delle cose importanti. Bisogna provare pian piano a trovare le parole, a costruire dei significati. Per il bambino si costruisce così un tesoro, che rimarrà per sempre», spiega Barbara Tamborini, che opera come consulente per progetti con le scuole.
Già con un bambino piccolissimo si può iniziare l’educazione alla sessualità. «Quando ci prendiamo cura del suo corpo, iniziamo a fargli sperimentare come determinati tocchi generino delle sensazioni piacevoli; nominando invece le parti del corpo, lo aiutiamo a costruire i propri confini corporei. Si creano così le basi per l’intimità, la confidenza e la naturalezza per quel che riguarda gli aspetti legati al corpo», afferma la psicopedagogista. Verso i 2-3 anni le occasioni per parlare di sessualità aumentano. Per esempio, non sono pochi i bambini che a questa età si toccano le parti intime. «Bisogna allora decidere quale strategia adottare, se dirgli di smetterla, lasciarlo fare, o altro. Questa situazione può riproporsi verso i 9-10 anni, con bambini quindi in pre-adolescenza – continua – in questo caso bisognerebbe iniziare un dialogo che non spaventa e non colpevolizza, ma aiuta a costruire delle mappe su come si vive la propria sessualità, per esempio dicendo che quello che sta facendo è qualcosa di bello, che procura delle belle sensazioni, ma che serve una situazione di intimità dove poterlo fare».
Certo, instaurare questo tipo di dialogo non è facile, ma con il tempo diventa più naturale e i figli lo percepiscono. L’obiettivo cui dobbiamo mirare è una relazione nella quale i figli parlino, quando lo vogliono, di sessualità o di affettività con noi, oppure noi proponiamo loro un libro sul tema, ma soprattutto che sappiano che quando vogliono parlare ci siamo e che con noi possono parlare di tutto. «Dobbiamo gettare tanti semi con i quali gli dimostriamo che vogliamo essere sulla scena. Quando c’è un campanello d’allarme ci accorgiamo di aver seminato bene perché nostro figlio richiede il nostro aiuto o anche solo il nostro ascolto. L’obiettivo come genitori è creare questa alleanza, che, nel momento del bisogno diventa un terreno d’incontro dove dire le parole più importanti e ricostruire quella serenità che ci permette di superare degli ostacoli», commenta l’esperta.
Nella quotidianità le buone intenzioni sono a volte minate dal fatto che i bambini sembrano essere specializzati nel porre le domande più impegnative nei momenti meno opportuni. Ci troviamo così di fronte ad una decisione: fare uno sforzo e rispondere o cedere alla tentazione di dire «ne parliamo domani», consci del fatto che molto probabilmente così non sarà. «Per affrontare certe questioni il momento dev’essere dettato dal bambino. A chi non è mai capitato di sentirsi in forma, tranquilli e provare ad abbordare un tema delicato con i propri figli, magari dopo aver letto un libro sull’argomento? Il risultato? Dopo pochi secondi li abbiamo persi. La sfida è quindi quella di essere pronti a cogliere l’attimo dell’incontro», afferma Barbara Tamborini. Quando siamo confrontati con una domanda spiazzante una prima cosa da fare è porre a nostra volta delle domande, del tipo «dove hai sentito questa parola?», «perché mi stai facendo questa domanda?». «Ciò ci permette di prendere tempo e ci porta spesso a capire che dietro alla domanda c’era solo una curiosità e quindi a ridimensionare l’impatto che essa aveva avuto su di noi; spesso il bambino non si aspetta grandi discorsi, gli basta una piccola risposta», conclude Barbara Tamborini.