L’aiuto pubblico alla stampa è necessario?

Dibattiti – Le opinioni sono divise ma è chiaro che in Svizzera molte realtà editoriali stanno scomparendo e il fatto non può che nuocere alla salute della democrazia
/ 18.03.2019
di Enrico Morresi

A trent’anni dalla svolta del 1988/89 (quando la fine del «Quotidiano» e la crisi dei giornali di partito costò la vita a quattro dei sette quotidiani che si pubblicavano nel Ticino), nuovi problemi si sono profilati per i giornali rimasti. Allora, la crisi strutturale del «Giornale del Popolo» non era ancora nota, e del «Corriere del Ticino» e de «laRegioneTicino» si sapeva che potevano godere della formula magica chiamata Tre Top Ticino, che rastrellava la pubblicità e ne ripartiva i proventi secondo le tirature. Oggi i nostri giornali sono tutti deficitari. De «laRegione» non ho le cifre, ma so che vi è stata operata una severa ristrutturazione redazionale. Nel suo penultimo anno di vita il disavanzo del «Giornale del Popolo» superava il milione, quello del «Corriere del Ticino» era vicino ai due milioni. Che la Diocesi nel frattempo abbia gettato la spugna è comprensibile. Quanto al «Corriere», campa sul «tesoretto» messo da parte negli anni buoni: il giornale si profila come l’unico quotidiano in grado di sopravvivere se vi sarà una nuova stretta.

Malgrado ciò, per ora almeno, in Ticino lo stato di salute dell’informazione è migliore che nel resto della Svizzera. Basta osservare quanto tempo e spazio prende l’imminente tornata elettorale nei giornali, nelle radio e nelle televisioni! Nella maggior parte degli altri cantoni invece la crisi ha già colpito, in modo durissimo e ben oltre le possibilità di essere compensata dal servizio pubblico radio-televisivo. Benché il volume degli investimenti pubblicitari sia, nell’insieme del Paese, cresciuto da 4,2 nel 2012 a 6,3 miliardi nel 2017, la quota spettata ai giornali, ai settimanali e ai domenicali è calata da 1,783 a 1,117 miliardi, cioè di un terzo, mentre la pubblicità su piattaforme online e social media (Google, Youtube, Facebook e Twitter) è cresciuta da 899 milioni a 3,056 miliardi (fonte: Werbeaufwand 2018). I deboli introiti dei servizi online dei giornali (compreso il cosiddetto paywall che permette di leggere a pagamento gli articoli anche sul web) non compensano le perdite. I media elettronici, in questo, non hanno… responsabilità: poco aumentata appare infatti la quota spettante alla televisione (da 726 a 774 milioni), alle radio private (da 147 a 151 milioni) e al cinema (da 26 a 31 milioni).

Non per caso la Svizzera si chiama ancora: «confederazione». La vita politica vi appare tuttora decentrata in tanti cantoni, in cui l’elettorato è consultato di frequente: giustificato è dunque il bisogno di un’informazione regionale e locale. Ma le testate sono calate da 273 a 184 tra il 1990 e il 2013, molti giornali regionali e locali si sono associati a un giornale più forte, ad alcuni non è rimasta alcuna autonomia: si parla di Kopfblätter. A Ginevra, tranne lo smilzo «Courrier», non esce più nessun quotidiano: la «Tribune de Genève» è fatta a Losanna e il proprietario è un editore di Zurigo. Il bilancio complessivo per la regione lemanica è magro: «Le Temps», giornale di qualità, ha una tiratura di poco superiore alle 30mila copie: più o meno come il «Corriere del Ticino» (ma la regione è dieci volte più grande). Non possiedono più un giornale «fatto in casa» Basilea, Lucerna, Berna, San Gallo: le grandi famiglie di editori si sono tutte eclissate. Conglomerati redazionali (e soprattutto manager spietati) dettano il ritmo da Zurigo, dove quel che si scrive deve andar bene per Aarau, per Sciaffusa, per il Toggenburgo e per l’Hasliberg. «Abito a Horgen ma mi ritengo meglio informato su quel che accade a Zurigo, dove lavoro», dice il prof. Daniel Kübler dell’Università di Zurigo.

Pare dunque una cecità ostentata quella che induce il Partito Liberale Radicale svizzero a respingere «un aiuto diretto che creerebbe una dipendenza dallo Stato nefasta per la nostra democrazia» («Edito» 06/2018, p. 13) e si fatica a capire l’opposizione per gli stessi motivi espressa da «Stampa Svizzera» – l’associazione degli editori di giornali. La Costituzione federale non prevede aiuti diretti alla stampa. È vero, e le ragioni sono storiche: nell’indipendenza dalla politica gli editori e le redazioni hanno sempre visto una marca di autonomia. Ma c’è anche chi, come Urs Thalmann, segretario di Impressum – il sindacato dei giornalisti –, sostiene una responsabilità dei singoli cantoni. La Commissione federale dei media, nel suo rapporto del 2014, ammetteva la mancanza di una base costituzionale per giustificare aiuti diretti, ma a quel punto si fermava: da essa è mancato lo stimolo a un cambio di passo. Siamo perciò ancora allo stadio delle mozioni e dei postulati… E nell’attesa che un nuovo maxi-rapporto suggerisca le varianti di un intervento possibile è probabile che altri giornali chiudano o si aggreghino a un consorzio più grande. 

In Europa, pochissimi Stati come la Svizzera si limitano a un finanziamento indiretto: ribassi sulle tariffe postali e un tasso agevolato dell’IVA. Il sostegno indiretto prevale, ma il dogma del non-intervento non lo sostiene più nessuno. Le linee di tendenza, infatti, sono identiche. In Italia, nel 2018, la pubblicità sui quotidiani è calata ancora del 6,2%, quella sui periodici dell’8,8%, mentre sui social media è cresciuta dell’8%. Le imprese editrici hanno tagliato drasticamente nei propri conti e ancora di più lo dovranno fare dopo che il Parlamento, dominato dalla coalizione gialloverde (Lega e Movimento 5 Stelle), ha deciso di sopprimere i contributi diretti entro il 2022. Il risultato sono un peggioramento della qualità e la diffusione del precariato tra i giornalisti: quanto pericoloso per la qualità dei servizi l’ho dimostrato più volte anche su «Azione». 

A chi si preoccupasse dei nuovi oneri che si intende addossare agli enti pubblici va fatto notare che una contropartita adeguata potrebbe trovarsi tassando in modo corretto gli utili miliardari delle grandi società mondiali della comunicazione: Google, Youtube, Facebook e Twitter, che scelgono di aver sede dove si pagano meno imposte. Il Parlamento europeo e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico se ne stanno occupando: se ne distanzierà la Svizzera? Questa è una battaglia che nessuno Stato può illudersi di combattere da solo: di fronte stanno imprese enormi, che hanno mezzi di pressione molto più forti di quelli a disposizione di un piccolo Paese. 

La situazione relativamente ancora buona del Ticino non deve estraniarci dal dibattito che sta entrando nel vivo sul piano nazionale. Dalla nuova responsabile del Dipartimento dei trasporti, delle comunicazioni e dell’energia, Simonetta Sommaruga, si attende un passo coraggioso in avanti. Prima che sia troppo tardi per i medi e i piccoli giornali da cui dipende la buona salute della democrazia.