È nota la difficoltà di approvvigionamento di numerosi farmaci anche in Svizzera. A un’interpellanza parlamentare in materia depositata il 19 marzo 2015, due mesi dopo il Consiglio federale rispondeva che «l’approvvigionamento sicuro di medicamenti richiede un coordinamento complesso e dinamico tra ricerca, industria, fornitori di prestazioni del settore sanitario e autorità», ritenendo che «lo stoccaggio a tutti i livelli come anche la fabbricazione decentralizzata rappresentino gli elementi fondamentali per un approvvigionamento di medicamenti sicuro».
A quattro anni di distanza, la lista dei farmaci diventati ormai rari o non più disponibili si è allungata, tanto che un rapporto pubblicato dall’Ufficio federale per l’approvvigionamento economico del Paese (UFAE) nel mese di marzo dichiarava che: «la gravità delle interruzioni nelle forniture e le misure costose a esse associate sono aumentate negli ultimi anni».
Di primo acchito, potrebbe sembrare una crisi del settore che non riesce a far fronte alle richieste del mercato. Se, però, si osservano gli indici di rendimento dei fondi d’investimento dedicati a prodotti per la salute e la medicina, spicca una reddittività particolarmente rilevante, con percentuali di rendita negli ultimi cinque anni che arrivano anche al 70 per cento, collocando gli «Azionari salute» tra i fondi, nei quali è più conveniente investire. Non è difficile, a questo punto, comprendere chi sono i veri clienti dell’industria farmaceutica, coloro dei quali essa si prende cura: non le persone malate, bensì gli investitori. Se un farmaco genera pochi utili – per esempio perché il brevetto è scaduto – allora è meglio toglierlo dal commercio. «Nei settori critici, il libero mercato non è più in grado di compensare i ritardi nella catena di fornitura stessa a causa del numero ridotto di fornitori e dei bassi livelli di scorte presso aziende e ospedali», si leggeva nello stesso rapporto dell’UFAE.
Il problema dell’approvvigionamento dei farmaci è un problema della loro redditività nel contesto di un’economia globalizzata. Un quadro generale della situazione è molto ben tratteggiato da Paolo Vineis in un saggio intitolato Salute senza confini. Le epidemie al tempo della globalizzazione.Professore di Epidemiologia ambientale presso l’Imperial College di Londra, Vineis ha svolto numerose ricerche sui rischi ambientali e ha scritto diversi libri sulla salute e l’etica dell’assistenza sanitaria. Attualmente, il suo interesse più vivo è per i cambiamenti epigenetici del DNA, vale a dire quelle mutazioni che il nostro patrimonio genetico sviluppa a contatto con l’ambiente in cui viviamo – dove per «ambiente» dobbiamo intendere non solo quanto ci sta attorno, ma anche come ci alimentiamo e quali stili di vita sviluppiamo nel corso degli anni. Dalle pagine di Salute senza confini è facile apprendere che l’industria farmaceutica ai tempi della globalizzazione è un elemento dell’instabilità del «sistema salute». Perché «un’altra conseguenza della globalizzazione è l’aumento degli interessi privati e delle pressioni sugli enti pubblici di ricerca e dei sistemi sanitari, in un intreccio tra affari e politica che allo stato attuale sembra anch’esso destinato ad ampliarsi anziché contrarsi».
La tesi sostenuta da Vineis è che, a livello mondiale, la salute potrebbe andare incontro a un deterioramento simile a quanto sta avvenendo in economia. I concetti di salute e malattia sono ormai cambiati: essi non sono più semplici processi biologici bensì fenomeni complessi che investono la sfera ambientale, sociale, economica, politica e culturale. È per questo motivo che il quadro tratteggiato da Vineis spazia dal cambiamento climatico ai flussi migratori, dalla crisi economica all’industrializzazione della produzione alimentare – tutti fenomeni fondamentali per comprendere lo stato di benessere (o malessere) delle popolazioni.
Il rapporto tra le scelte politiche e le ragioni del mercato occupa un intero capitolo di Salute senza confini. Vineis fa osservare che «per governare i rapidi cambiamenti nelle tecnologie e nei modelli di distribuzione e di consumo sarebbero necessarie istituzioni politiche forti, ma mai come oggi queste sono screditate e impopolari». A questo riguardo, basterebbe pensare alle attività di prevenzione nell’ambito della salute. In un momento storico, in cui si promuove «l’enfasi sui consumi privati piuttosto che sui servizi pubblici, con il duplice obiettivo di sostenere la produzione industriale e ridurre la spesa pubblica», l’attività di prevenzione, sebbene garantisca enormi risparmi pubblici, è percepita come un’azione scarsamente appetibile perché non genera profitti privati.
Gli interventi di prevenzione hanno effetti su più malattie contemporaneamente. Il corretto stile di alimentazione e l’attività fisica regolare, per esempio, hanno un effetto positivo su diversi tipi di tumori, sulle malattie cardiovascolari, sul diabete, sull’ipertensione e verosimilmente anche sulle malattie neurologiche – tuttavia si preferisce la promozione individualizzata della salute piuttosto che azioni strutturali per prevenire le malattie.L’attività di prevenzione è particolarmente lacunosa nei paesi «a basso reddito» nei quali si stanno rapidamente diffondendo malattie non trasmissibili come il diabete e i vari tipi di cancro prodotti dal consumo di tabacco: «le proiezioni al 2030 delle morti causate dal fumo ci dicono che l’aumento si verificherà tutto nei paesi a basso reddito, dove il consumo sta crescendo vertiginosamente». Ma è proprio l’Organizzazione mondiale del commercio a opporsi alle politiche di contenimento delle vendite e della pubblicità del tabacco in nome del libero mercato e delle «libere scelte dei consumatori».
Dalla poca reperibilità di molti medicinali, all’infertilità dei giovani passando per la privatizzazione della salute come risposta inadeguata alle sfide della globalizzazioneA questo proposito, l’industria del tabacco o l’industria alimentare sostengono il «principio del danno»: a livello individuale, ciascuno ha il diritto di giudicare che cosa è buono o cattivo per sé. Il problema è che – a prescindere dal fatto che tutte le cure mediche gravano su un complessivo costo sanitario sopportato dall’intera comunità –, il potere di persuasione del marketing ha una capacità di penetrazione, cui non riescono a opporsi le campagne di prevenzione, cosicché l’individuo non ha gli strumenti per comprendere la natura dei danni cui è soggetto.
I tre temi maggiori trattati da Vineis sono l’industria alimentare, il clima e l’epigenetica. L’industria che produce «alimenti trasformati» sta usando le stesse strategie per molti decenni adoperate dall’industria del tabacco, e gran parte della sua pubblicità promuove prodotti altamente calorici e grassi. La conseguenza è una rapida diffusione ovunque dell’obesità, al punto che «stiamo attraversando il primo periodo storico dell’umanità in cui ci sono più persone sovrappeso che denutrite». A questo riguardo, il caso dell’isola di Nauru in Micronesia «è esemplare di come può presentarsi la globalizzazione in molti paesi a basso reddito». Arricchitisi negli anni Settanta con l’esportazione di guano, gli abitanti mutarono rapidamente le loro abitudini alimentari e i loro stili di vita diventando pressoché tutti obesi a causa del cibo e delle bevande importati. Rapidamente, il 30 per cento della popolazione divenne diabetica. Ora che il guano è esaurito, l’isola è precipitata nella povertà ma anche nell’impossibilità di gestire l’epidemia di diabete.
I cambiamenti climatici stanno avendo effetti marcati sulla salute attraverso la scarsità di acqua di buona qualità. Si stanno diffondendo le malattie trasmesse dall’acqua, come il colera; quelle basate sull’acqua, come la diffusione di parassiti come lo schistosoma; quelle che l’acqua laverebbe via, come la scabbia; oppure le malattie correlate all’acqua, come la malaria. Questi effetti prodotti dai cambiamenti climatici saranno amplificati dalle trasformazioni urbane, che stanno portando ovunque gli ambienti insalubri delle megalopoli: le migrazioni delle persone avvengono contemporaneamente alle migrazioni degli ambienti urbani.
Secondo Vineis, però, «saranno soprattutto i mutamenti epigenetici ad essere prodotti dalla globalizzazione, e a diventare in futuro uno dei campi di maggiore sviluppo degli studi della salute». Di che cosa si tratta? Il patrimonio genetico delle popolazioni, cioè la sequenza del DNA, cambia molto lentamente. Ci sono però dei cambiamenti funzionali e non strutturali del DNA che possono avvenire molto rapidamente e che sono legati a esposizioni ambientali, anche e soprattutto già in utero. Per esempio, possiamo sviluppare un cancro a causa del silenziamento dei geni oncosoppressori prodotto da agenti esterni (sostanze nell’ambiente oppure negli alimenti); ma anche i mutamenti ormonali e sessuali «è verosimile che rispondano anch’essi a un meccanismo epigenetico». La diminuita fertilità dei giovani maschi svizzeri, per esempio, potrebbe anch’essa essere l’effetto epigenetico della globalizzazione di stili di vita e stili di consumo che, combinati, hanno esposto le giovani generazioni al contatto con sostanze che hanno innescato mutamenti funzionali del DNA.
La salute ai tempi della globalizzazione deve far fronte al problema che essa non viene più percepita come bene comune bensì come bene di consumo di cui godere individualmente. L’obiettivo non è più la salute di una popolazione ma la salute individuale, con i conseguenti effetti di colpevolizzazione e di emarginazione. È questo l’ostacolo che Vineis teme di più, il fatto cioè che «la più grande crisi ecologica dell’umanità si svolge congiuntamente al più grande mutamento comunicativo e decisionale» – perché le decisioni politiche si basano troppo poco sulle evidenze scientifiche, e troppo sulle necessità dell’economia, per la quale la malattia è una fonte di reddito.