Cambiare è difficile, ma non impossibile. Ne sono convinti Lisa Laskow Lahey e Robert Kegan, psicologi americani dell’Università di Harvard, che hanno dedicato al problema dieci anni di ricerche, incontri e pubblicazioni. Tutti sappiamo quanto sia faticoso modificare abitudini e atteggiamenti, anche quando in gioco ci sono aspetti importanti. Come spiega Laskow Lahey, «basta considerare i comportamenti dei malati di cuore ai quali i dottori hanno chiaramente detto di correggere lo stile di vita perché altrimenti possono morire. Questi pazienti sanno esattamente quello che devono fare: mangiare in modo più salutare, con una dieta povera di calorie, fare esercizio fisico, smettere di fumare, e così via. Eppure, nonostante rischino la pelle, soltanto uno su sette riesce davvero ad abbracciare nuove abitudini, gli altri continuano come prima». Le resistenze a migliorarsi sono spiegate dai due psicologi in un libro che negli Stati Uniti ha avuto successo e che è stato appena pubblicato in italiano. Il titolo, Immunità al cambiamento (Franco Angeli), ricalca il nome della teoria cardine di Laskow Lahey e Kegan, alla base anche del loro programma di coaching individuale e di gruppo per le aziende. All’origine della possibilità di diventare la versione migliore di se stessi c’è l’idea che lo sviluppo mentale sia qualcosa di progressivo, cioè che con il dovuto nutrimento – dalla cultura nelle sue forme più svariate, alle interazioni con gli altri, all’esercizio fisico – non si blocchi e retroceda con il passare degli anni. La plasticità mentale, «l’incredibile capacità del cervello di adattarsi lungo tutto il corso della vita», permette di potersi mettere in discussione in continuazione. Il punto è come riuscire a smettere di auto-boicottarsi nonostante razionalmente si sia davvero convinti di voltare pagina. La motivazione individuale è la prima vera spinta (non si può essere persuasi dagli altri), ma non sufficiente quando c’è l’«immunità al cambiamento», determinata dalle resistenze che mettiamo in atto in maniera inconsapevole e che sono causate dalle nostre paure e dall’ansia.
Un caso concreto, esaminato dai due studiosi, è la «mappa dell’immunità» di Cathy, giovane donna che lavora nel marketing di una delle aziende farmaceutiche più grandi al mondo. «Energica, motivata e di successo, tende però a essere impaziente e stressata quando sopraggiungono problemi o ostacoli». Su un foglio vengono disegnate quattro colonne, dedicate rispettivamente all’impegno di Cathy per migliorarsi, alle azioni che intende fare o interrompere per superare l’impazienza e lo stress, agli obiettivi antagonisti nascosti e alle convinzioni latenti. È proprio su queste ultime due colonne che si deve agire per riuscire a innescare un percorso virtuoso. Qui Cathy riconosce consapevolmente i propri limiti (la difficoltà di dire no e di avere scontri con gli altri, il volere essere sempre e comunque la persona di riferimento per il suo gruppo, essere disponibile ad ogni costo) e le ragioni più intime della paura di fallire e di mostrarsi debole (timore di deludere i colleghi, pensare di rendere al centocinquanta per cento, pretendere una dedizione straordinaria dal suo team). Da queste considerazioni, risulta che Cathy dovrebbe imparare a rallentare, ad avere aspettative più realistiche per se stessa e per gli altri, a dire no quando necessario. Il percorso per passare dall’intenzione alla pratica, però, è accidentato. Mentre pensa di avere intrapreso la strada giusta, un giorno sviene per il troppo nervosismo e finisce in ospedale. Da quel momento non può fare altro che constatare di non riuscire a essere all’altezza dei propri standard irrealistici. Ottiene anche il supporto del capo e dei colleghi che si preoccupano per lei. Nell’arco di sei mesi, Cathy riesce a sbloccare la sua «immunità» agendo nel concreto: va via dall’ufficio a orari umani, dedica del tempo a se stessa ogni giorno, inserendo nella sua routine l’esercizio fisico e la meditazione, chiede ad alcuni colleghi fidati di avvertirla con segnali in codice quando, senza accorgersene, sta per ricadere in certe dinamiche emozionali durante le riunioni. Alla fine riesce ad attuare «la propensione al cambiamento, che è spesso innescata da un’improvvisa comprensione di una verità su se stessi. Nella graduale scoperta dell’immunità, una porta che non si è vista prima si dischiude e rivela quello che era stato tenuto nascosto a se stessi. Anche se la prima reazione è il turbamento, in questo molti vedono una promessa e un’opportunità per comprendere finalmente la fonte dei comportamenti antagonisti».
Immunità al cambiamento fa parte di un filone prolifico di pubblicazioni che, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, dà indicazione su come trovare la versione migliore di sé. Una parte di questi manuali cerca di andare sempre di più verso soluzioni accessibili perché sembra inutile darsi obiettivi improbabili che difficilmente possano adattarsi alla propria indole. È il caso di Happy Ever After: Escaping The Myth of The Perfect Life (Felici e contenti: sfuggendo al mito della vita perfetta), uscito nei giorni scorsi in inglese per l’editrice Allen Lane. L’autore, Paul Dolan, professore di Scienze comportamentali alla London School of Economy, spiega che in certe circostanze è meglio abbassare le aspettative, adattandole ai propri standard, per riuscire ad avere un’esistenza più soddisfacente. Ad esempio, non è detto che si debbano scegliere i percorsi canonici: non è necessario dovere andare all’università per avere soddisfazione nel lavoro né sposarsi per stare bene nella sfera privata. La sfida è ribellarsi al perfezionismo, che sembra essere diventato uno dei grandi assilli del nostro tempo, rivisitando l’idea di automiglioramento in un’ottica sostenibile: cambiare non significa stravolgersi, ma imparare ad ascoltarsi e correggere il tiro.