Domenico Barrilà

La fiducia che educa

Lo psicoterapeuta Domenico Barrilà è stato ospite al Festival dell’educazione a Bellinzona, dove ha parlato di fiducia nella relazione educativa. Lo abbiamo intervistato
/ 28.10.2019
di Alessandra Ostini Sutto

«Il modo migliore per scoprire se ci si può fidare di qualcuno è dargli fiducia», scriveva Ernest Hemingway. Questa risorsa preziosa sta infatti alla base delle relazioni umane, oltre ad essere un «motore» in grado di generare motivazione e, di conseguenza, produttività e creatività.

La fiducia è stata al centro della quarta edizione del Festival dell’educazione, svoltosi qualche settimana fa a Bellinzona. Tra i relatori dell’evento promosso dal Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport (DECS), Domenico Barrilà (psicoterapeuta e analista adleriano) ha tenuto una conferenza sulla fiducia nella relazione educativa. Impegnato da oltre trent’anni nell’attività clinica in Lombardia, Barrilà è attivo pure nello sviluppo di progetti compatibili con una psicologia vicina ai cittadini. Collabora con alcune testate nazionali e dirige due collane editoriali da lui ideate. È autore di una ventina di titoli, diversi dei quali tradotti all’estero. Tra quelli più recenti segnaliamo Quello che non vedo di mio figlio. Un nuovo sguardo per intervenire senza tirare a indovinare (Feltrinelli 2017) e I superconnessi. Come la tecnologia influenza le menti dei nostri ragazzi e il nostro rapporto con loro (Feltrinelli 2018).

Incuriositi dal tema proposto a Bellinzona, gli abbiamo posto qualche domanda sulla relazione educativa, sia all’interno della scuola che della famiglia, e sul ruolo della fiducia.

Domenico Barrilà, nella relazione educativa, tra insegnante ed allievo, qual è attualmente il modello dominante?
Non credo esista un modello dominante e per essere sinceri non vedo neppure un modello. Forse, semplicemente, mi auguro non esista, perché le posizioni ideologiche, le fissità del passato, oggi tendono a creare solo distanza tra adulti, bambini e ragazzi. Occorre una plasticità che noi grandi non siamo ancora in grado di produrre, saranno i più giovani a spingerci in quella direzione. Non ci sono alternative.
Oggi bambini e ragazzi si muovono in un ambiente virtuale, che si smaterializza sempre più e che determina paesaggi interiori sconosciuti a molti genitori

In quale direzione sta dunque evolvendo il rapporto tra le generazioni?
La continuità tra le generazioni si è in qualche modo spezzata. Lo spazio naturale che fino a un paio di decenni fa esisteva tra adulti e minori si è dilatato in proporzioni che erano inimmaginabili. La tendenza, in realtà, era già in atto. La differenza è che ora bambini e ragazzi si muovono in un ambiente che si smaterializza sempre più, virtualizzandosi e determinando paesaggi interiori originali, sconosciuti a molti genitori.

Quali sono le ripercussioni sul piano educativo?
Per la prima volta nella storia dell’educazione, il grado di preparazione di bambini e ragazzi, almeno per quanto riguarda le nuove tecnologie, è più alto, rispetto a quello degli adulti. Da un lato quindi i giovani sono in grado di contribuire a rendere più competenti i propri educatori, contagiandoli con le novità di cui sono impregnati, dall’altro chi educa, nel modo di farlo, deve tenere conto di avere di fronte degli interlocutori assai più competenti di come era abituato a immaginarli. Questo, comunque, comporta un guadagno per tutti.

Fatte queste premesse, come devono comportarsi, concretamente, genitori ed insegnanti?
Potremmo definire l’educazione, la trasmissione testimoniale di una visione della vita, dove il termine «testimoniale» ci dice che i ragazzi sono influenzati dal comportamento dei genitori, solo in minima parte da ciò che essi dicono. Ad esempio, uno dei mantra di oggi è quello di educare all’uso consapevole degli oggetti digitali; un’intenzione certamente lodevole, ma per un genitore o un insegnante la possibilità di incidere sul rapporto con le nuove tecnologie passa attraverso il modo in cui loro stessi si pongono nei confronti di esse. Difficile dire a un figlio di staccare la testa dallo Smartphone, se suo padre, per esempio, ne fa un uso poco esemplare. L’ambiente gioca un ruolo determinante nella costruzione dei modelli educativi, quindi il valore del vecchio esempio non è mai tramontato.

Al di là di quello familiare, come è mutato l’ambiente in cui i ragazzi sono immersi con l’avvento delle nuove tecnologie?
In questi ultimi anni, quell’ambiente che immaginiamo solido, tridimensionale, è diventato qualcosa di completamente diverso. Il terreno di gioco si è allargato enormemente, poiché l’ambiente virtuale è potenzialmente sconfinato. Un educatore non può occupare spazi di tali dimensioni. Esercitare un controllo sul tragitto scuola-casa oppure sugli amici che frequenta un ragazzo, significa pattugliare un teatro dalle dimensioni certe o comunque ragionevoli. Diverso è tentare di tenere sotto controllo un universo pieno di materia oscura. Il rapporto di fiducia va quindi costruito a monte, considerando che non siamo onnipotenti e non possiamo passare le giornate a spiare.

Come va coltivata la fiducia?
La fiducia non si coltiva con delle tecniche speciali. La sua esistenza è l’effetto di comportamenti coerenti, di convinzioni chiare. Non basta dire a un figlio che abbiamo fiducia in lui, si tratta di creare le condizioni perché lui senta che le cose stanno davvero così. Ciò non si verifica, per esempio, se parliamo di fiducia ma poi controlliamo il cellulare tutte le volte che lo lascia incustodito.

A scuola, qual è il ruolo della fiducia nella relazione educativa?
Nel rapporto educativo fiducia fa rima con incoraggiamento. Un ragazzo che sente fiducia sincera, genuina, nei suoi confronti, penserà di meritarla e questo lo indurrà a comportarsi di conseguenza. Diversamente, se si sente ingaggiato in una sorta di rapporto poliziesco, vivrà la sensazione di non meritare fiducia, che avrà pure le sue conseguenze. Ogni essere umano tende infatti a comportarsi secondo il giudizio che sente aleggiare nei suoi confronti.

Cambia il discorso se si considera il contesto familiare?
Vale lo stesso ragionamento, con l’aggravante che se un ragazzo trova normale preventivare un qualche conflitto di interessi con i suoi insegnanti, dalla famiglia si aspetta sostegno e fiducia, spontaneamente.

Sia a scuola che a casa ci si scontra ad un certo punto con un ostacolo fisiologico, la conflittualità nel rapporto tra adolescente ed adulto…
Non saprei se esista il paradiso terrestre, ma mi dichiaro certo che la famiglia non sia tenuta a somigliargli. Parlare di un gruppo umano, composto da individui dalle personalità non sovrapponibili, come la famiglia, significa per conseguenza logica parlare di conflittualità, che è il motore del suo sviluppo. Ed è proprio in tali situazioni che i genitori diventano preziosissimi, perché in questo preludio alla vita sociale allargata – questo è la famiglia – gli scontri servono a regolare lo spazio di ciascuno, a definire il proprio pensiero, i propri diritti. Ad affinare, in sintesi, la propria vocazione sociale.

Lei è uno psicoterapeuta e analista adleriano; che relazione ha questo tipo di approccio con il tema di cui ci stiamo occupando?
Alfred Adler costruisce il suo sistema psicologico tra due sponde, il sentimento sociale e la volontà di potenza. Egli parte dalla natura sociale dell’essere umano, che è la vera causa di tutti i suoi progressi e fa coincidere la normalità con la capacità di aderire a tale destino.
Un bambino e un ragazzo sani sono in genere dei buoni cooperatori; un criterio semplice che ci dice molto dei nostri figli. Ecco perché controllare gli oggetti digitali serve a poco, molto meglio interrogare gli insegnanti su come i nostri figli si comportano coi loro simili. Una domanda fondamentale, la cui risposta può essere efficace come una diagnosi competente. Se un ragazzo usa con moderazione i social network ma non riesce a integrarsi con i propri simili, è certamente messo peggio di uno che li usa con frequenza ma rispetta gli altri ed è attento ai loro interessi.

In conclusione, come vede in prospettiva le nuove generazioni?
Il protagonismo delle nuove generazioni riguardo a temi che noi adulti abbiamo lasciato incustoditi mi fa dire che forse siamo di fronte ad una svolta culturale potente, di cui loro sono gli artefici. Mi commuove sapere che reclamano il diritto di difendere la terra che ci ospita, un diritto che noi per troppo tempo abbiamo dimenticato di esercitare, permettendo la sofferenza di un’infinità di esseri viventi, dagli umani che muoiono di fame e di sete fino agli animali che sopprimiamo, spesso crudelmente. Sì, c’è davvero il rischio che ci facciano vergognare.