La dittatura felice

Psicologia positiva – L’esaltazione della felicità nasconde, secondo alcuni, numerosi pericoli
/ 12.08.2019
di Natascha Fioretti

Finito il saggio firmato da Edgar Cabanas e Eva Illouz mi è passata la voglia di essere felice. E sì che sono tra quelle che la parola felicità la usano e la pensano spesso e volentieri intendendola un po’ alla Luciano De Crescenzo come una cosa piccola e vicina più di quanto immaginiamo, se solo, a volte, fossimo capaci di vederla. In verità, grazie al saggio Happycracy. Come la scienza della felicità controlla le nostre vite ho scoperto che dietro a questa parola oggi si nasconde un mondo, un’ideologia, una pseudoscienza, uno stile di vita, un business, un modo di pensare e di omologare le nostre esistenze molto insidioso e di cui può essere utile prendere bene le misure.

Secondo il professore associato all’Università Camilo José Cela di Madrid e ricercatore presso il Centro per la storia delle emozioni del Max Planck Institut di Berlino e la professoressa di sociologia all’università ebraica di Gerusalemme considerata dal settimanale tedesco «Die Zeit» tra le dodici intellettuali più importanti che influenzeranno il futuro, viviamo in una dittatura della felicità in cui non sono ammesse voci fuori dal coro. Siamo noi gli artefici del nostro destino, dei nostri pensieri positivi e da essi dipendono il nostro successo personale, lavorativo e il mondo che ci circonda abitato da cittadini e lavoratori felici. Detto così non sembra poi così male, ma vi conduco all’essenza del problema sollevato dai due autori citando il pensiero della scrittrice americana Barbara Ehrenreich.

Malata di cancro al seno, femminista convinta, si è messa alla ricerca di gruppi e reti femminili che discutessero e condividessero la sua stessa esperienza. Confrontandosi sulla questione si è però resa conto che intorno alla cultura del cancro al seno impera un pensiero dominante: il tumore non va visto come una cosa brutta che ti capita ma come un’opportunità, una condizione che può essere ribaltata se affrontata con il giusto atteggiamento e cioè pensando positivo, credendo che l’esperienza della malattia renda le persone migliori e permetta loro di crescere, anche spiritualmente. E chi, in generale, non approfitta delle avversità, trasformandole in occasioni di crescita personale, è sospettato di meritarsele, quali che siano le sue circostanze esistenziali. In modo ironico Barbara Ehrenreich dice «alla fine mi sono convinta di avere due malattie: il cancro al seno e un atteggiamento negativo».

Correva l’anno 1998 quando Martin Seligman ebbe l’intuizione di fondare una nuova scienza della felicità per indagare tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta e permettere di scoprire le chiavi del funzionamento ottimale dell’essere umano. L’anno dopo diventò presidente dell’American Psychological Association (APA), la più grande associazione di categoria degli psicologi americani con oltre 117’500 membri e questo, unito al generoso sostegno finanziario che la sua intuizione incassò dal governo degli Stati Uniti ma non solo (nel 2002 poteva contare su 37 milioni di dollari di fondi raccolti) permise una diffusione così rapida e capillare che in poco tempo la felicità non solo si trovò in cima all’elenco delle priorità della ricerca accademica ma anche molto in alto tra gli obiettivi sociali, politici ed economici di diversi Paesi come Stati Uniti, Francia e Inghilterra.

Nel 2012 l’ONU, in collaborazione con l’agenzia di sondaggi Gallup, ha dato vita al World Happiness Report, una graduatoria mondiale che definisce il grado di felicità di ogni paese sondando la felicità dei cittadini. Felicità derivante dalla somma di fattori quali nuove tecnologie, normative sociali, politiche di governo virtuose che promuovono il cambiamento. Nello stesso anno è stata istituita la giornata internazionale della felicità che promuove la felicità e il benessere come obiettivi universali e aspirazioni della vita degli esseri umani e ribadisce l’importanza di riconoscerli nelle politiche pubbliche.

Tra i meriti della psicologia positiva vi è senz’altro la capacità di stringere alleanze eccellenti. Il World Happiness Report viene stilato ogni anno da Richard Layard, membro della Camera dei Lord, già consulente del governo Blair, direttore del Centre for Economic Performance presso la London School of Economics e fondatore e direttore del Wellbeing Programme. Soprannominato, infine, zar della felicità, è da sempre un fautore della collaborazione tra economisti e psicologi. Non a caso nel 2008, dopo il tracollo dell’economia mondiale, molti governi valutarono l’ipotesi di usare gli indicatori della felicità per tastare il polso della popolazione, a fronte del rapido declino delle misurazioni obiettive del tenore di vita e dell’eguaglianza. Le principali istituzioni internazionali iniziarono a raccomandare la felicità come indice di misurazione del progresso nazionale, sociale e politico.

Via di questo passo la psicologia positiva si è legata al neoliberismo sposandone in particolare la filosofia sociale di stampo individualista focalizzata soprattutto sul sé, e il cui postulato antropologico è riassumibile in una frase di Nicole Aschoff: «Siamo tutti attori indipendenti e autonomi che, incontrandosi sul mercato, costruiscono il proprio destino e, così facendo, anche la società».

In un contesto economico di difficoltà e recessione, in un mercato lavorativo globale stressato, altamente competitivo e sempre più precario, alle persone viene recapitato questo messaggio: trovate la forza di volontà dentro voi stessi. Meglio ancora se chiedete aiuto a uno dei tanti guru del benessere dedito ad orientare l’attenzione del singolo verso la vita interiore e rafforzare la sua capacità di agire in un mondo frenetico e caotico. Ma, allo stesso tempo, svuota il sé di qualsiasi componente comunitaria, rimpiazzandola con preoccupazioni di tipo narcisistico  e limitando la possibilità di costruire un vero cambiamento sociale e politico a livello collettivo.

Come dice Marino Pérez, specialista di psicologia clinica, «la società del benessere provoca disagio e sottopone le persone a una sorta di circuito in cui come il criceto sulla ruota pedalano continuamente per raggiungere più o meno lo stesso obiettivo».

Per Cabanas e Illouz la psicologia positiva è uno strumento potentissimo in mano alle organizzazioni e alle istituzioni, che sotto l’ègida della felicità mirano a costruire lavoratori, soldati e cittadini più obbedienti. E criticano la psicologia positiva definendola una pseudoscienza, piena di assunti e deduzioni fallaci, che pecca di possedere la verità assoluta.

Infine, sottolineano, c’è un grande assente nella dittatura della felicità: il valore delle emozioni negative. Non dimentichiamoci che le agitazioni popolari e la volontà di mutamento sociale nascono dalla collera e dal risentimento dei singoli. Nascondere questi sentimenti sotto il tappeto del pensiero positivo, far credere alle persone che qualsiasi sia la loro condizione sociale, il loro reddito e la loro storia personale bastano i pensieri positivi a determinare la realtà intorno, significa stigmatizzare la struttura emotiva del malessere sociale trasformandola in qualcosa di biasimabile. E, allora, ci dicono i due autori, non la felicità ma la conoscenza e la giustizia saranno sempre lo scopo morale e rivoluzionario della nostra vita.