«Sono arrivato in Svizzera con mia sorella, prima a Neuchâtel e poi ci hanno portati in Ticino. È molto bella, la Svizzera. Le persone sono molto gentili e ci aiutano. Ho seguito un corso di italiano, sei mesi soltanto, e ho imparato poco poco», parliamo con Amjad Alsaid, un ragazzo siriano che ci racconta del suo Paese dove vivono ancora i suoi genitori che non vede da ormai 7 anni. Con un velo di malinconia nei suoi grandi occhi neri ci racconta che laggiù: «Alla nostra famiglia manca tutto, anche da mangiare». Ma subito un sorriso lo illumina quando aggiunge: «Qui ho trovato casa, lavoro come magazziniere e tutti sono molto gentili».
Siamo nell’ex scuola di Ravecchia, in via Belsoggiorno 22, alla casa del DaRe, dove DaRe sta per «Diritto a Restare». Una casa presa in affitto un paio d’anni or sono dall’omonima associazione (http://www.associazionedare.ch), a suo tempo nata come magazzino di stoccaggio per ogni genere di merce. «Ogni martedì siamo aperti per chi ci porta qui qualsiasi cosa in buono stato: dai vestiti ai giochi per bambini, dai generi di prima necessità (come ad esempio i kit di accoglienza per il neonato) fino a tutto quanto può servire per la casa: piatti, stoviglie, tovaglie, armadi, tazze e bicchieri. Qui questa merce viene scelta, riordinata e ridistribuita alle persone bisognose», la presidente dell’associazione dalla quale la casa DaRe prende il nome è Lara Robbiani Tognina, una signora incontenibile, che sprizza energia da tutti i pori e che, coadiuvata da altri membri del suo Comitato, è accogliente anche con noi come con le persone che fanno capo a questa vecchia costruzione di quattro piani che lei ci fa visitare con orgoglio. Ci racconta che è aperta a tutti i bisognosi: «Qui, il giovedì, non arrivano soltanto richiedenti d’asilo in attesa di una risposta o coloro i quali già l’hanno ottenuta, vengono pure famiglie ticinesi residenti e famiglie domiciliate che si trovano alla soglia dell’assistenza, che stanno attraversando un momento difficile o che sono molto numerose e necessitano per lo più indumenti per i bambini (che pesano parecchio sul budget famigliare)».
Le difficoltà e la povertà cui l’associazione DaRe e la sua relativa residenza cercano di dare sollievo non fanno distinzioni fra le persone e la loro provenienza. Questo ci ricorda le parole dello scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun quando dice: «Siamo tutti lo straniero di qualcun altro». Quest’esperienza che, dicevamo, qui a Ravecchia ha visto la luce circa due anni fa come magazzino, ad oggi è un vero e proprio tetto di accoglienza che propone differenti attività: «I progetti dell’associazione DaRe per questo luogo sono tutto un divenire e cerchiamo di realizzarli secondo le risorse di cui disponiamo di volta in volta», racconta la signora Tognina che spiega come, oltre al magazzino, la casa è soprattutto un punto familiare di aggregazione: «Mi sento come in una famiglia allargata!». E continuando a farci da cicerone nella visita dello stabile continua a mostrarci locali e attività: «Abbiamo una sartoria per i migranti o per chi ha bisogno di sistemare i propri indumenti, offriamo conversazioni di italiano, stiamo organizzando incontri di ginnastica, c’è una cucina che ogni giovedì ci permette di preparare i pasti e ci si trova anche in 20-25 persone a pranzare tutti insieme». Oltre ai volontari che ne permettono il funzionamento, la casa del DaRe si avvale di cinque piani occupazionali (uno dei quali è quello di Amjad), il posto per un servizio civile (conosciamo Leonardo che studia sport e presto organizzerà ore di ginnastica per gli utenti) e in tasca un mare di altri progetti che, replica la presidente: «Crescono in base alle risorse dei nostri volontari».
Nel corso della nostra visita viviamo un andirivieni di persone: giovani donne eritree con il pancione, una mamma dedita alle conversazioni che le servono ad imparare meglio l’italiano, il cui bambino si è addormentato su una poltrona e viene coperto e sorvegliato dai volontari. E ancora qualcuno che sceglie la merce e ne organizza la distribuzione, persone che arrivano a consegnare alcuni sacchi contenenti abiti e via dicendo: tutti con il sorriso, che si salutano, ci salutano, che scambiano due parole anche con noi. Dietro suggerimento della signora Tognina, ci promettono che faremo tutti insieme una bella fotografia come ricordo del pomeriggio passato insieme. Anch’essi si sentono «in famiglia» come la nostra interlocutrice che qualcuno definisce «la mamma dei migranti» e che ripete: «Questa è la mia famiglia allargata, la mia grande famiglia».
Una realtà che ci induce a qualche riflessione e ci porta alla mente le parole di Don Andrea Gallo che a nostro avviso ben rappresentano questa realtà di accoglienza: «Io vedo che, quando allargo le braccia, i muri cadono. Accoglienza significa costruire dei ponti e non dei muri». «E pensare che quando mi sono chiesta cosa potevamo fare per accogliere queste persone, abbiamo iniziato anni fa semplicemente con il portare nei centri e nelle pensioni di Milano sacchi contenenti abbigliamento per i migranti e per chi ancora si trovava in quella zona grigia della richiesta d’asilo», ricorda la nostra interlocutrice che ribadisce il concetto dell’accoglienza a 360 gradi pure di persone bisognose ticinesi e famiglie residenti. «Una casa che non si apre al di fuori, che non sa coniugare intimità e accoglienza, diventa una tana, o una tomba», ha detto la sociologa italiana Chiara Giaccardi. Non è il caso della casa del DaRe che accoglie tutti a braccia aperte. «Vorrei che la giornata avesse più delle 24 ore di cui disponiamo, per far fronte ad ogni richiesta e dare seguito ai numerosi progetti che ci frullano per la testa», conclude Lara Robbiani Tognina, mentre Alsaid è stato la sua ombra per tutto il tempo della nostra chiacchierata. È a lui che lasciamo dire in arabo: «أنا سعيد هنا أنا بخير». «’ana saeid huna ’ana bikhayr», che significa: «Sono contento. Qui sto bene».