Isolarsi dal mondo

Adolescenti – Ragazzi che si barricano nella loro stanza e rifiutano qualsiasi contatto con l’esterno: intervista allo psicologo Stefano Artaria sul fenomeno del ritiro sociale
/ 09.10.2017
di Guido Grilli

Dimissionano dalla vita, divenendo invisibili. Quando tutti sono svegli o la casa si svuota loro dormono e, al contrario, quando la notte tutti riposano loro restano con gli occhi aperti, nella loro stanza dalla quale non escono più. Così per settimane, mesi, un tempo sospeso e interminabile. Si chiama «ritiro sociale in adolescenza», fenomeno non propriamente nuovo ma di preoccupante attualità e sinora senza grandi risposte dalla comunità scientifica che ne studia da tempo a livello internazionale caratteristiche e possibili strategie per uscirne. Osservato in Giappone, si è diffuso negli Stati Uniti e in Europa. E il Canton Ticino non ne è immune, anzi. Ne parliamo con Stefano Artaria, psicologo e direttore di Arco, una comunità socio-terapeutica per adolescenti con sede a Riva San Vitale.

Stefano Artaria, che cos’è il ritiro sociale in adolescenza?
È stato il Giappone, dove avrebbe preso origine il fenomeno, ad averne coniato il nome: Hikikomori letteralmente «stare in disparte, isolarsi». Colpisce un crescente numero di adolescenti e i casi cominciano a diventare sempre più elevati anche in Ticino: sono giovani che si rifiutano di mettersi in relazione con la società, con i coetanei, con gli altri; si barricano nella propria stanza, usufruendo delle relazioni virtuali attraverso Internet. Si tratta di un rifiuto ad affacciarsi alla società che coincide con un rifiuto della scuola, dei rapporti sociali, del rapporto col proprio sé corporeo, con la conseguenza di grandissime preoccupazioni sia nei genitori sia in coloro che cercano di occuparsi di loro. 

Ci può delineare il quadro del fenomeno?
Esisterebbero due tipi di “Hikikomori”: una forma legata a una delle classiche psicopatologie, come per esempio la depressione, le dipendenze da Internet e da videogiochi, l’esordio psicotico; e una forma non legata a una psicopatologia, che potremmo dunque definire «pura», un vero e proprio ritiro sociale in sé e per sé, una nuova forma di sofferenza legata alla fatica di diventare adulti; il giovane è ritirato, silenzioso, a volte senza sintomi o senza un’evidente sofferenza esterna, trova il suo palcoscenico in camera, al riparo da sguardi e da commenti, esente da conflitti gravi quotidiani o da crisi. Sono insomma giovani che sembrano voler dire «Preferirei di no». E quindi, alla domanda, vuoi andare a scuola? Vuoi uscire con gli amici? rispondono «Preferirei di no». Evitano il conflitto e decidono silenziosamente di starsene a casa. Provano fatica ad essere se stessi, sono confrontati con una bassa motivazione e autonomia, sono giovani che non si attivano, «decidono» di esprimere in questo modo il loro malessere, la loro angoscia, eludendo le richieste della società, la quale chiede ai giovani di essere progettuali e responsabili, di raggiungere dei risultati. 

Si possono distinguere diversi gradi di ritiro sociale? 
Potremmo ulteriormente suddividere il fenomeno in altre quattro tipologie: esiste un ritiro votato a scegliere un altro modo di crescere: in camera mia, senza gli altri e senza confrontarmi con gli altri, convinto di poter crescere così; c’è poi un ritiro sociale che si manifesta facendo il vuoto contro la realtà esterna (che viene percepita come violenta, spaventosa o minacciosa), spesso è anche un modo per poter tenere sotto controllo la propria violenza. Un terzo tipo è un ritiro che potremmo definire dimissionario, cioè lo sfuggire alla pressione, alle attese sociali e familiari, che può manifestarsi con una ripercussione sul corpo (dolori fisici, mal di pancia, mal di testa, nausea, febbre), è un tentativo di fermare il tempo e provare a rallentare la crescita. Infine l’ultimo tipo si traduce in una sorta di sospensione della vita, che assomiglia a una morte sociale, a un ritiro sinonimo di sparire del tutto, non diventare mai adulti e quindi neanche autonomi, non mostrare competenze, non potersi affacciare alla vita perché inadatti, nonostante questa forma coinvolga spesso giovani intelligenti e di talento.

Quali sono i giovani più a rischio?
Il ritiro sociale è un fenomeno molto eterogeneo, che può colpire ragazzi molto diversi, ma fondamentalmente fragili. Un aspetto messo in luce negli studi è che spesso è presente un clima all’interno di queste famiglie di speranze e aspettative per un bambino che sembrava molto competente e talentuoso. Poi di fronte alla prova – quella della crescita, del corpo che cambia, del suo divenire un corpo sessuato – ecco che avviene la rottura, il ritiro. Spesso ciò avviene durante le scuole medie, proprio negli anni in cui capitano delle cose importanti dal punto di vista dello sviluppo.

Quindi, che cosa fare?
Bisogna intanto chiedere aiuto. È evidente che i genitori da soli a casa si sentano impotenti e non abbiano gli strumenti per far fronte a questa forma di sofferenza. Ci sono grandissimi sensi di colpa nei genitori rispetto a quello che vedono e alla loro impotenza, crollano anche un po’ gli ideali verso il figlio, spesso in questa fase si dà tutta la colpa al telefonino, a Internet: si comincia una sorta di guerra santa contro la tecnologia che viene sempre persa, per cui la madre viene rifiutata e il padre perde di valore. Chiedere aiuto è quindi molto importante: rivolgersi ai servizi – il servizio medico-psicologico, l’Ufficio dell’aiuto e della protezione, le autorità regionali di protezione, i terapeuti – che però da subito si scontreranno con il problema su come fare a incontrare questi giovani, visto che non escono di casa. Bisogna dunque andare a casa loro, nelle loro camere.

Con quali risultati? 
Ad oggi sembra che una delle forme migliori di aiuto in queste situazioni sia una comunità socio-terapeutica. Questo perché è evidente che non si può stare a casa di questi giovani 24 ore su 24, 365 giorni all’anno; una possibile soluzione è un luogo con altri adolescenti, con degli operatori specializzati, con delle attività e un programma terapeutico.

Ma come si fa a convincere un adolescente ritirato socialmente ad aderire ad una comunità socio-terapeutica?
L’autorità, che sia quella genitoriale o quella civile, deve assumersi la responsabilità di dire al giovane, «adesso tu non puoi più stare a casa!» E devo dire che proprio questi casi di ritiro e di arresto evolutivo reagiscono positivamente in un ambiente socio-terapeutico residenziale. A casa non ci sono strumenti di aiuto. È molto difficile all’inizio accompagnare il giovane in comunità ad avere la sua adesione, ma ci sono dei passi da compiere, degli incontri, e un contratto terapeutico da condividere. Quello che constatiamo (qui il nostro interlocutore si riferisce alla sua attività quotidiana alla comunità socio-terapeutica Arco a Riva San Vitale, ndr.) è che l’ambiente comunitario aiuta moltissimo questi giovani, perché il ritiro sociale s’interrompe e il cammino evolutivo riprende. Il gruppo dei coetanei è già presente e il giovane non deve sforzarsi di cercarlo fuori o a scuola; poi ci sono le attività (il tiro con l’arco, il laboratorio orticolo, l’arte-terapia, ...) e la vita quotidiana. Il ragazzo vi partecipa ed esce da questo suo isolamento. Chiaro che non è ancora risolto nulla, bisogna ancora svolgere il lavoro terapeutico, sia con il giovane sia con i genitori la cui collaborazione è essenziale.

Prima della comunità socio-terapeutica si possono tentare altre vie?
Certo, una cosa che si può fare è mettere in atto la formula «più padre e meno madre»: ossia diminuire la protettività materna e aumentare la funzione, ed evidenzio funzione, paterna: portare fuori, spingere all’avventura, affrontare i rischi, esplorare il mondo, separarsi e crescere.