La scuola dovrebbe essere un primo approccio al mondo costruttivo e positivo, un laboratorio paritario in grado di permettere a tutti di trovare uno spazio il più confortevole possibile nella vita adulta. Cosa succede, invece, quando questa istituzione non riesce a colmare la faglia della disuguaglianza, cioè le differenze sociali? Il quesito non è per niente slegato dalla nostra realtà, se è vero che anche gli allievi dei nostri livelli B spesso provengono da situazioni svantaggiate da un punto di vista economico e culturale. Abbiamo parlato di questo e altri temi con lo scrittore, insegnante e intellettuale Christian Raimo, autore del bel volume Tutti i banchi sono uguali. La scuola e l’uguaglianza che non c’è (Einaudi 2017). Raimo di recente è stato ospite al Festival di teatro internazionale di Lugano e in novembre tornerà a Bellinzona nell’ambito di una giornata di incontro e riflessione con i docenti sui temi legati all’insegnamento.
Il sistema scolastico svizzero ha una matrice differente rispetto a quella che regge la scuola italiana. Come appare ad un occhio esterno?
Mi sono informato sulle statistiche inerenti la scuola svizzera, nello specifico ho raccolto informazioni sui livelli di dispersione scolastica e disuguaglianza: essendo un Paese piccolo e abbastanza benestante, noto con sollievo che le questioni di classismo risultato meno accentuate che in Italia. La questione della dispersione scolastica riguarda una fetta abbastanza piccola di persone e si assestano attorno all’8% i non scolarizzati dai 15 ai 18 anni; a questa percentuale bisogna ancora fare la tara, visto che il 5% è già attivo da un punto di vista lavorativo. La percentuale di vera dispersione è il 3%, mentre in Italia raggiunge il 13%. È una differenza notevole.
Lungo il percorso offerto dalle scuole medie, per certe materie, esiste una biforcazione: le allieve e gli allievi con i risultati migliori seguono lezioni più complesse e possono in un futuro accedere ai Licei e alle formazioni superiori, gli altri no. Cosa ne pensa?
Penso che il sistema binario di selezione, seppur effettuato in un contesto medio-alto, vada sempre in una direzione di disuguaglianza che vorremmo evitare. Eppure non sono tanto questi dati relativi alla Svizzera ad avermi colpito, quanto quelli che riguardano la solitudine. La Svizzera è una società che invecchia, costituita da molte persone sole e da molti nuclei familiari monoparentali, solitamente femminili. In questo senso l’idea che la formazione riguardi solo la parte studentesca giovanile e non la società intera, è a mio avviso un tema da tenere presente.
Per offrire un insegnamento atto a valorizzare ogni singolo allievo e ogni singola allieva è decisiva la metodica. In questo momento si parla spesso di «competenze». Qual è il suo parere in questo senso?
La parola «competenze» viene usata dagli insegnanti, dai coordinatori e in generale da coloro che si occupano di didattica in modo diffuso, ma di fatto non esiste una bibliografia condivisa e canonizzata sul tema e non si sa dire con precisione cosa si intenda con questo termine. A volte questa retorica abusata da insegnanti ed educatori dà l’illusione di un’innovazione che in realtà non c’è, perché di fatto già Aristotele parlava di competenze. Ma con Aristotele inizia anche la scuola dei contenuti. E se ci pensiamo bene in fondo le discipline contengono già in sé gli strumenti per imparare. Nessuna disciplina è una disciplina meramente nozionistica. La storia, la filosofia, la storia dell’arte, la letteratura non sono un catalogo di contenuti che noi docenti passiamo agli studenti attraverso un sistema di insegnamento; esse sono un metodo di apprendimento in sé. Quello che voglio dire è che i contenuti e i metodi si integrano continuamente. Secondo me dobbiamo spostare l’attenzione altrove, per esempio sul fatto che il dibattito pedagogico oggi è sicuramente marginale nel contesto del dibattito pubblico. Proviamo a citare un nome di un pedagogista famoso: ecco, scopriremo che non ci viene in mente nessuno. Questo è un problema di non poco conto. Conosciamo molto bene altre figure di esperti, come politologi, sociologi, psicologi, capaci di orientare il dibattito culturale intellettuale. Pensiamo a Cacciari, a Bauman e ad altre figure che vediamo impegnate a discutere su vari temi in tv o sui giornali. I pedagogisti sono messi da parte. Una figura autorevole come Tullio De Mauro oggi manca.
Lei ha insegnato dieci anni. Cosa ha imparato in questo periodo di tempo?
Che il modo migliore di imparare è insegnare. Uno dei metodi che seguo è questo: provare a stimolare in classe una forma di collaborazione educativa, di peer education (educazione fra pari, ndr). Ho la fortuna di insegnare due materie che solitamente vengono amate: la filosofia e la storia. Sono delle materie che insegnano, come anticipavo, un metodo. Ho imparato moltissimo cosa vuol dire interessare qualcun altro nel contesto di un allenamento che non è sporadico, ma quotidiano. Per me questo è fondamentale: avere l’attenzione della classe e fare in modo che gli allievi abbiano la possibilità di uscire, alla fine della lezione, leggermente diversi. È una cosa che ha a che fare da una parte con l’atletica, dall’altra con l’arte. Nell’insegnamento hai una disponibilità di tempo che nessun altro mestiere ti dà. Passo 600 ore con i miei allievi: è una relazione importante, fondamentale. Cerco di impostare un tempo di qualità, perché so che se un insegnante lo utilizza bene esso può portare a una trasformazione importante nella vita dei ragazzi.