Il Processo Bologna evolve sempre

Università – Il Segretario di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione Mauro Dell’Ambrogio fa chiarezza riguardo alle modifiche che toccheranno gli atenei svizzeri nel prossimo triennio
/ 15.10.2018
di Eleonora Bertossa

Era il 1999 quando i ministri di 29 paesi europei, tra cui la Svizzera, sottoscrissero la dichiarazione di Bologna. Il documento dava ufficialmente il via a un processo di riforma internazionale dei sistemi di istruzione superiore. Obiettivo principale era la creazione dell’Area Europea dell’istruzione superiore (EHEA) che permettesse di promuovere la mobilità e facilitare la competitività della piazza formativa europea. Grazie a questa riforma sono stati introdotti gli attuali metodi di istruzione universitaria, come il sistema dei cicli (Bachelor, Master e Dottorato), dei crediti ECTS, e l’introduzione di sistemi nazionali delle qualifiche. I punti cardine di questo progetto sono quindi: mobilità, chiarezza e controllo della qualità. Ad oggi sono 49 i paesi che aderiscono all’EHEA.

Nel maggio di quest’anno si è tenuta a Parigi la conferenza ministeriale dell’Area Europea dell’istruzione superiore, durante la quale i Ministri dell’Istruzione dei diversi paesi hanno discusso e approvato nuove iniziative. Tra gli obiettivi proposti per il triennio 2018-2020 ci sono temi come l’incremento della trasparenza per favorire il riconoscimento delle qualifiche, della formazione e dei tempi di studio, anche per ciò che riguarda gli studenti rifugiati. Inoltre, si accorderà particolare attenzione alle nuove tecnologie digitali e allo sviluppo di pratiche di insegnamento e apprendimento innovative. Per il 2020 è prevista la prossima conferenza che permetterà di valutare l’efficacia dei cambiamenti introdotti e discutere i prossimi obiettivi.

Abbiamo intervistato il Segretario di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione Mauro Dell’Ambrogio per cercare di capire quali sono gli esiti di questi primi 19 anni dall’introduzione del Processo Bologna, quali sono i vantaggi che le modifiche hanno apportato, quali i miglioramenti necessari, ma anche per placare alcune preoccupazioni riguardo alla possibilità che questo sistema possa portare alla standardizzazione degli studi e conseguentemente alla perdita della specificità dell’insegnamento secondo la tradizione accademica elvetica.

Come messo in luce dal Segretario di Stato, il Processo Bologna non detta riforme vere e proprie, ma favorisce il dialogo tra le nazioni, tenendo in considerazione le opinioni dei diversi governi, delle varie università e degli studenti stessi.

Signor Dell’Ambrogio, il Processo di Bologna avviato all’inizio degli anni 2000 ha avuto, a suo avviso, un esito positivo?
In due decenni nel mondo universitario è cambiato molto, in Svizzera e all’estero, in meglio o in peggio secondo luoghi, punti di vista e discipline. E questo per una molteplicità di cause: anzitutto per riforme nazionali più o meno – spesso più dichiaratamente che nei fatti – ispirate al Processo di Bologna, con obiettivi molto diversi. Ma anche per cause demografiche, economiche, del mondo del lavoro o abitudini sociali. È difficile catalogare esiti positivi e negativi di Bologna. Sicuramente positivo è stato il guadagno di chiarezza, attraverso procedure di accreditamento armonizzate, nel riconoscimento internazionale reciproco dei titoli di studio e delle istituzioni che li rilasciano, sia pubbliche che private.

Come mai si è sentita la necessità di introdurre delle ulteriori riforme al sistema?
I «sistemi» universitari, nel senso di un insieme coerente di regole che li governano, restano nazionali. Il Processo di Bologna consiste nel fatto che i rappresentanti delle università, degli studenti e dei governi di una quarantina di paesi, ben oltre i confini europei, su base volontaria, scambiano informazioni e si consultano regolarmente allo scopo di rendere i loro sistemi il più possibile compatibili. Il che non significa conformi a uno standard, ma con diversità trasparenti e riconoscibili. Un tale processo non potrà mai dirsi compiuto. Da ogni sviluppo dovuto a riforme nazionali o a fattori esterni derivano nuovi bisogni di chiarimento.

Nello specifico a cosa mira la conferenza del 2020?
Nel 2020 è prevista la prossima conferenza a livello ministeriale. La Svizzera ha assunto per turno la co-presidenza e contribuirà in modo importante alla preparazione, con le associazioni dei rettori e degli studenti. Vi è un elenco di temi, quali ad esempio le misure per incentivare la presenza di uomini rispettivamente donne nelle discipline dove sono troppo minoritari. Si tratta insomma di scambiare esperienze, di verificare l’effetto di misure introdotte da taluni paesi, di ipotizzarne di nuove.

E, concretamente, che cambiamenti sono previsti per le università svizzere?
Saranno i nostri organi accademici a deciderlo. Bologna non detta riforme, ma può influire sui cambiamenti che ciascun paese liberamente decide. In Svizzera le università hanno ampia autonomia, ad esempio per definire le discipline di studio e la loro struttura; in altri paesi sono i governi a farlo. Cambiamenti possono avvenire in un contesto più ampio. Qualche anno fa, considerato il prolungamento degli studi universitari dovuto a Bachelor + Master, la Germania decise di ridurre di un anno la durata del liceo. Un tale passo in Svizzera sarebbe di competenza dei governi cantonali, ma è attualmente improbabile.

Quali sono i vantaggi che le modifiche possono fornire agli studenti e agli istituti Svizzeri? Quali invece le eventuali criticità che si paventano?
Il più importante vantaggio per gli studenti è sempre la qualità della formazione, che dipende da molti fattori. Bologna non persegue un modello standard di università e riconosce che la diversità è un valore. Che va però soppesato con l’ostacolo che la diversità può rappresentare per la mobilità degli studenti, utile alla loro esperienza. Gli studenti che cambiano sede o paese in modo transitorio o definitivo nel corso degli studi dovrebbero usufruire almeno di chiarezza e prevedibilità. Che non significa sempre riconoscimenti automatici. Si tratta anche di impedire, a chi se lo può permettere, di svolgere parte degli studi in sedi meno esigenti e selettive per mirare poi a un titolo di maggiore prestigio. Favorire la mobilità, senza imporre uniformità e senza effetti collaterali indesiderati, è un esempio dei punti delicati che ripetutamente affiorano nel Processo.

Prendiamo ad esempio la questione dell’abolizione della terza materia e dell’introduzione di un sistema Major-minor forzato: questo non pone un grosso limite alle scelte individuali?
La domanda fa riferimento a possibilità di scelta tipiche delle facoltà di lettere. Il dover tirare le somme di quel che si è imparato dopo un primo ciclo triennale e non più quadriennale ha comportato inevitabili restrizioni quantitative. Ogni sede d’altra parte suddivide le materie a modo suo, sia prima che dopo Bologna. Storia la si può considerare una materia, o suddividere in antica, medievale e contemporanea; o in storia economica ecc. Una regola del tipo: «chi sceglie Filosofia come materia principale e Storia come secondaria, deve scegliere tra Antica o Medievale, non può (più) farle entrambe», non impedisce poi di scegliere nel Master un altro approfondimento. Né già prima di seguire corsi o di leggere libri per i quali non si dovranno presentare esami. Il limite di scelta se lo impongono anzitutto gli studenti, se sposano la logica del minimo sforzo per conseguire un titolo.