È un’emozione attorno alla quale aleggia una certa reticenza, dal momento che – per la sua definizione – viola le norme sociali. Stiamo parlando della Schadenfreude, letteralmente la «gioia per le disgrazie altrui». Nella nostra lingua non esiste un equivalente della parola germanica, che, comunque, viene usata come prestito linguistico pure in altri idiomi. Se molte lingue non dispongono di un proprio termine per descrivere questa reazione emotiva antisociale, sono numerose quelle in cui si trovano dei proverbi che esprimono tale concetto. «La sfortuna degli altri è dolce come il miele», recita, per esempio, un antico proverbio giapponese, mentre i più vicini francesi dicono «Le malheur des uns fait le bonheur des autres» («La sfortuna degli uni fa la felicità degli altri»).
Alla Schadenfreude in ambito lavorativo è stato dedicato di recente uno studio, condotto da ricercatori dell’Università di Zurigo in collaborazione con la Shanghai Jiao Tong University e la National University di Singapore. Nel contesto lavorativo capita infatti di assistere ad episodi di maltrattamento, abuso o mobbing. Ad oggi, la maggior parte delle ricerche condotte sull’argomento sostiene che in questi casi gli osservatori provino empatia nei confronti delle vittime e rabbia verso i perpetratori. Tuttavia, Jamie Gloor, economista aziendale a capo della citata ricerca, ritiene che questa visione semplifichi eccessivamente la complessa natura delle dinamiche sociali. Ed è proprio questo il motivo per cui ha dedicato la sua ultima pubblicazione alla genesi, allo sviluppo e alle conseguenze della Schadenfreude, una dark emotion – a suo dire – discussa dai filosofi fin da Aristotele ma che la più recente ricerca ha ampiamente trascurato.
Gli ambienti professionali, oltre a consentire esperienze sociali positive come il cameratismo e il sostegno, possono contenere in sé condizioni ideali per lo sviluppo di competizione, invidia e tensioni interpersonali o tra gruppi. Questo tipo di dinamiche negative aumenta la probabilità che qualcuno possa beneficiare delle sventure altrui, ed è in tali condizioni che la Schadenfreude nasce e prospera. «Negli ambienti complessi e in continua evoluzione, come i luoghi di lavoro, ci concentriamo su ciò che è più rilevante per noi e per i nostri obiettivi», afferma Jamie Gloor. Di conseguenza la «gioia per le disgrazie altrui» tende ad essere indirizzata verso collaboratori particolarmente validi: «L’ingiusto trattamento può livellare il campo di gioco, aumentando potenzialmente le proprie possibilità di ottenere ricompense, come bonus e promozioni», continua l’esperta.
Quest’emozione, secondo il nuovo studio condotto dall’ateneo zurighese, trova terreno fertile principalmente in contesti altamente competitivi, nei quali i collaboratori si vedono unicamente come concorrenti, non come colleghi. Secondo gli autori, un tale ambiente facilita la tendenza a giustificare il proprio godimento per l’altrui sofferenza. I ricercatori parlano invece di Schadenfreude «ambivalente» quando il piacere per le disgrazie altrui è offuscato da sensi di colpa e vergogna.
Nel primo caso, il rischio è che chi era unicamente un osservatore, inizi a diventare attore, trattando ingiustamente il bersaglio della propria Schadenfreude, per esempio negandogli un aiuto o escludendolo attivamente. «Se la Schadenfreude diventa pervasiva tra i dipendenti, il comportamento asociale potrebbe anche diventare la norma», riassume Gloor. Per evitarlo, gli autori dello studio consigliano ai dirigenti di creare un clima di lavoro inclusivo, promuovendo incentivi orientati al team piuttosto che individuali oppure procedure atte a contenere la potenziale invidia e il risentimento nei confronti degli star performer. Vale inoltre la pena di individuare gli opinion leader all’interno dei gruppi che si possono creare in una realtà aziendale, al fine di scongiurare il rischio che si creino delle spirali di trattamenti ingiusti.
Provare piacere per le disgrazie altrui non resta – ovviamente – prerogativa dell’ambito lavorativo. Anche se ci hanno insegnato che non si deve godere delle sventure delle altre persone, a tutti è già successo – e succede – di provare questa emozione. Per esempio vedendo una multa di parcheggio sull’auto del vicino di casa litigioso oppure quando qualcuno ci spintona per raggiungere il suo bus e poi lo perde. La Schadenfreude è, infatti, un’esperienza più comune di quanto siamo disposti ad ammettere. Paradossalmente, pur essendo antisociale, è un’emozione intrinseca all’essere sociale. C’è chi la interpreta come una sorta di giustizia divina, che punisce chi se l’è meritato, o di contrappasso, che arreca un danno a chi ci ha fatto subire un torto; molti provano in questi casi il sollievo di non essere, questa volta almeno, la persona toccata dalla sventura, o la soddisfazione di avere la prova che nessuno è perfetto.
Un articolo del 2002 del «New York Times» ha citato una serie di studi scientifici su quella che ha definito «delizia delle disgrazie altrui». Molti di essi si basano sulla «teoria del confronto sociale», l’idea cioè che quando le persone intorno a noi subiscono degli eventi sfortunati, tendiamo ad avere uno sguardo più benevolo su noi stessi. Un altro risultato emerso è la propensione da parte delle persone con una bassa autostima a provare con maggiore frequenza l’emozione di cui stiamo parlando.
Anche Schadenfreude: il piacere delle disgrazie altrui di Wilco W. van Dijk e Jaap W. Ouwerkerk (uscito nel 2016) offre un’ampia rassegna delle ricerche teoriche ed empiriche. Nei vari capitoli si ritrovano elementi appena visti, tra cui la giustizia come motivazione di fondo dell’emozione in questione, oppure il ruolo dei processi di confronto sociale e di invidia nel suscitare piacere per le sventure altrui. A proposito di invidia, è interessante la definizione che si legge nell’introduzione di Vittorio Cigoli e Federica Facchin: «La Schadenfreude è l’immagine speculare dell’invidia. Quest’ultima è quel malessere che sorge quando qualcun altro possiede qualcosa di desiderabile. La Schadenfreude al contrario è quella sensazione di felicità che si prova quando un’altra persona va incontro a una sventura». L’idea che emerge dal volume è quella di un sentimento strettamente legato alla nostra maniera di confrontarci con l’altro e di percepire noi stessi: quando il confronto pende a nostro sfavore, a dipendenza della nostra personalità, invidiamo l’altro e, magari, non ci dispiacerebbe se venisse degradato. Così capita di ritrovarsi a godere di una sventura che gli è occorsa, con la sensazione che sia stata fatta giustizia. Lo Schadenfroh – colui che gode malignamente – non è però mai la causa di questa sventura; non è un vendicatore, bensì un osservatore passivo.
Su questa inconfessabile emozione si è pure chinata un’esperta in materia, Tiffany Watt Smith, storica culturale, nota per il suo Atlante delle emozioni umane. 156 emozioni che hai provato, che non sai di aver provato, che non proverai mai (Utet 2017), tradotto in tutto il mondo. Con il suo recente Schadenfreude – La gioia per le disgrazie altrui, uscito quest’anno, Watt Smith – che nel 2014 è stata inclusa dalla BBC tra i New Generation Thinkers – prosegue la mappatura delle emozioni umane soffermandosi su una singola emozione, che Nietzsche definiva la «vendetta dell’impotente» e che suscita numerosi interrogativi: come funziona, a che cosa serve e, soprattutto, dobbiamo vergognarcene? Sono alcune delle domande a cui la studiosa cerca di dare delle risposte, conducendo il lettore in un viaggio, anche divertente, da Shakespeare ai Simpson, da Winnie Pooh a Dostoevskij, da Freud a Kim Kardashian.