Conosciamo tutti quella sensazione. Ti alzi la mattina, sfogli un quotidiano e la brutalità delle news ti assale. I titoli in prima pagina sono deprimenti. Guerre e omicidi, la politica raccontata per scandali e polemiche, le catastrofi naturali attraverso le immagini di vittime piangenti. Poca la differenza fra cronache nazionali e internazionali. Vince la brutta notizia. Rari gli articoli di approfondimento, poche le pagine dedicate ad inchieste, reportage e ritratti di personaggi interessanti.
Il panorama mediatico delle notizie quotidiane negli ultimi decenni non si è solo intristito, si è anche appiattito: i quotidiani sono sempre più l’uno la fotocopia dell’altro. Raramente si tratta di una buona novella, tanto che a leggere un giornale si ha l’impressione che la fine del mondo si avvicini a grandi passi. Innegabile, che il pianeta sia malato. Oggettivo, che il divario fra ricchi e poveri, potenti e deboli, sia grande. Eppure questa foto del reale, una foto a tinte forti che spesso non indaga sulle cause, sui retroscena e sui veri responsabili, lascia in chi legge l’amaro in bocca e un senso di impotenza.
Che cosa ci spinge a sfogliare compulsivamente repertori di piccola e grande disumanità? Fa parte della psicologia umana, pontificano gli esperti. Pensiamo al successo dei film dell’orrore o di guerra, al potere di attrazione che esercita una serie televisiva dove l’eroe è un poliziotto o un medico che lavora al Pronto soccorso. Spiare dal buco della serratura eventi drammatici fa salire l’adrenalina e nutre la nostra inconfessabile curiosità. E i giornali e le televisioni ci sguazzano.
In decisa controtendenza, nelle università e nei grandi gruppi editoriali sta però timidamente prendendo piede quello che è stato battezzato «giornalismo costruttivo». Il più celebre teorico del genere è un danese. Ulrik Haagrup dirige le news della televisione pubblica DR e a un certo punto ha detto basta: «Sono rientrato a casa una sera, i miei figli guardavano il telegiornale e c’erano solo notizie tristi». In quel momento è iniziata per Haagrup una riflessione che l’ha portato a sperimentare nella sua redazione una modalità diversa: «il punto non è raccontare storie a lieto fine. Al contrario parliamo di un giornalismo critico, che va oltre la superficie e suggerisce soluzioni, offrendo ispirazione e quindi speranza».
La nouvelle vague che arriva dalla Scandinavia in una manciata di anni ha conquistato alcuni grandi nomi del panorama mediatico. «The Huffington Post», «Der Spiegel» e «The Guardian», ma anche il «Tages Anzeiger» hanno inaugurato una serie di articoli «costruttivi». Scontate le reazioni, a doppio registro. C’è chi si arrabbia per quel sapore dolciastro che resta in bocca a leggere certi articoli, dai quali si direbbe che in fondo «va tutto bene». C’è chi ribatte che anche questo è il mondo ed è giusto parlarne. Ulrik Haagrup ama citare un esempio: un reportage della televisione pubblica danese sulle alternative all’uso massiccio di antibiotici negli allevamenti. L’esempio di un contadino olandese che ha risolto il problema utilizzando i probiotici è stato imitato, in seguito alla messa in onda del servizio, da attori di peso dell’industria danese.
Nonostante gli esempi lodevoli la nuova, costruttiva moda di fare giornalismo fatica a difendersi dai critici. E allora i partigiani pubblicano schemi chiarificatori che sottolineano la differenza fra «giornalismo positivo, storie felici che tirano su l’umore, ma che mancano di impatto sociale ed eludono gli aspetti critici» e quello «costruttivo», che invece «applica tecniche della psicologia comportamentale e aderisce alle funzioni chiave del mestiere: essere il cane da guardia della democrazia, mettere in guardia dai potenziali pericoli, disseminare informazioni che consentano all’elettorato di prendere decisioni basate sulla conoscenza dei fatti».
Sul «giornalismo costruttivo» Haagrup ha scritto un fortunato manuale, disponibile in tedesco e in inglese e distribuito in Svizzera da Media Tenor. Nel frattempo il genere ha conquistato la sua prima cattedra. L’ha inaugurata l’Università per le scienze applicate di Windesheim, in Olanda, e a capo ci ha messo una collega di Haagrup, la giornalista danese Cathrine Gyldensted. Dopo una decina di anni da inviata all’estero e giornalista d’inchiesta, Gyldensted ha a sua volta detto basta. A «Deutschlandfunk» ha raccontato: «Stavo intervistando una “senza tetto”. Ponevo domande che puntavano a mettere in evidenza la miseria della sua condizione, ma lei continuava a darmi risposte suggestive di ispirazioni potenti e positive, che erano illuminanti quanto il racconto di cosa era andato storto nella sua vita». Secondo la giornalista danese, che sul genere ha ormai costruito una carriera, «il DNA del giornalismo costruttivo è servizio pubblico, perché ruota attorno alle persone e ai movimenti dal basso. Si ricollega all’investigazione e all’approfondimento. Propone e discute soluzioni, guarda al futuro».
La tendenza interessa gli editori, tanto che EBU, l’organizzazione che mette insieme le aziende televisive e radiofoniche del continente Europa, un’organizzazione di cui fa parte anche SRG SSR, organizza un’iniziativa di formazione sul tema, il 28-29 novembre a Copenaghen. Sul fronte della carta stampata il World Editors Forum, associazione mondiale degli editori di quotidiani, ha dato spazio al dibattito sulle colonne del suo sito (www.editorsweblog.org).
Tagliente l’analisi di Anton Harber, che in Sud Africa dirige il programma di studio su giornalismo e media dell’Università di Wits: «Le news sono “costruttive” quando punti ad una società compiacente e non contribuisci allo sviluppo di una società attiva e impegnata. Grande giornalismo significa pubblicare storie che mettano in discussione, che pongano domande, che sorprendano e spingano all’azione, con un effetto dirompente sui poteri forti. Nulla è più costruttivo di fare riflettere chi legge, e questo è quello che fa il giornalismo scomodo». Eppure i difensori del genere, ormai presenti in tanti paesi, sostengono che si tratti in fondo di un equivoco. Dicono che il «giornalismo costruttivo» mira agli stessi obiettivi di quello d’inchiesta: rompere con le cattive abitudini del mondo delle news, spingere per la soluzione dei problemi dando spazio a storie in cui l’elemento umano, di contributo alla Cosa pubblica, sia forte, per incoraggiare il dibattito nella società.
Così se da una parte il nuovo genere capovolge paradigmi classici, come quello che solo una brutta notizia fa notizia, molti media provano a inserirlo nelle loro redazioni. Si dicono convinti dal potenziale etico e di influenza sulla società, consapevoli delle brutture di una notizia «copia e incolla» e non verificata, ma ugualmente sparata in prima pagina perché scandalo e paura fanno notizia. I maligni che puntano il dito sulle ricerche hanno mostrato un marcato successo di pubblico per le storie con approccio costruttivo. Nella crisi mondiale dell’editoria tradizionale, è un pubblico che fa gola.