Essere genitori non è un mestiere non è soltanto il titolo (italiano) del manuale scritto da Alison Gopnik, docente di Psicologia e di Filosofia all’Università della California a Berkeley, ma è anche un’avvertenza. Nell’epoca del business dei libri che insegnano a essere padri e madri «perfetti» e degli esperti dispensatori di ricette per crescere bambini di successo, è ora di cambiare prospettiva e tornare ad avere un atteggiamento più spontaneo e leggero. Basandosi su studi evolutivi e su ricerche sull’attitudine dei bambini ad apprendere, la studiosa, autorità internazionale nell’ambito dello sviluppo infantile, madre di tre figli e nonna di due bimbe, difende l’importanza del ruolo dei genitori, ricordando però che non si può parlare di «mestiere».
Il modello che prevede «fare il lavoro dei genitori» (dall’inglese, parenting) si è diffuso nel mondo occidentale negli ultimi decenni e presenta diversi limiti. «Per la maggior parte della storia umana, le persone sono cresciute in famiglie allargate con molti figli. Quasi tutti i futuri genitori avevano già una notevole esperienza diretta nella cura dei bambini ben prima di averne di propri. Avevano molte opportunità di osservare gli altri, non solamente i propri genitori, ma nonni, zii e cugini maggiori. Queste fonti tradizionali di capacità e conoscenze ‒ che non hanno niente in comune con le competenze tecniche ‒ sono perlopiù scomparse. I manuali e i siti Internet sul come fare i genitori si sono molto diffusi proprio perché sembrano riempire quel vuoto».
Blog, forum e libri sono pieni di genitori ed esperti che si preoccupano se i figli non sono abbastanza bravi a scuola, che cercano soluzioni per renderli migliori, paragonandogli agli altri, illudendosi di agire solo in base al proprio istinto e alla «naturalità» del ruolo. «Se si accetta l’idea che essere genitori sia un tipo di lavoro, allora si pensa di dover scegliere fra quel tipo di lavoro e altri tipi di lavoro. Le madri, in particolare, tendono a essere sempre sulla difensiva, e tormentate rispetto alla possibilità o meno di avere successo sia come genitore sia in ambito professionale, e si sentono costrette a scegliere fra sminuire l’importanza della maternità e sacrificare la propria carriera. Ma lo stesso dilemma affligge i padri, anche più intensamente perché il loro ruolo genitoriale è meno riconosciuto». Inoltre pensare che essere genitore sia un lavoro fa emergere tutta la frustrazione del caso: «orari lunghissimi, senza remunerazione né altri vantaggi. E per vent’anni non si ha la minima idea se lo si sia fatto bene, cosa che di per sé rende il compito esasperante nonché fonte di continui sensi di colpa».
In molti si comportano, sostiene Gopnik, come se fossero dei falegnami, il cui obiettivo è produrre, attraverso tecniche precise, un particolare tipo di oggetto. Invece, sempre per usare un’altra metafora, sarebbe utile comportarsi come dei giardinieri. «Quando curiamo un giardino creiamo uno spazio protetto e ricco di nutrimento in grado di fare crescere le piante rigogliose. Occorre molto impegno e fatica, tempo passato a scavare nella terra e a sporcarsi le mani di letame. E, come tutti gli appassionati di giardinaggio sanno bene, i nostri progetti vanno sempre di traverso. Il papavero viene fuori arancio acceso anziché rosa pallido, la rosa che doveva essere rampicante si ostina a restare a mezzo metro da terra, afidi e macchie nere sulle foglie richiedono una lotta che non ha mai fine. Eppure la soddisfazione deriva dal fatto che capita di ottenere dei risultati spettacolari anche quando il giardino sfugge al nostro controllo, quando la rosa bianca va inaspettatamente ad arrampicarsi sul tronco scuro del tasso, quando una giunchiglia dimenticata corre sottoterra fino alla parte opposta del giardino e crea un’esplosione di giallo in mezzo ai nontiscordardimé, quando la vite che doveva crescere disciplinata sulla pergola lancia i suoi rami rossi sulle piante tutt’intorno. Simili incidenti, a ben vedere, sono indice di buon giardinaggio».
Il che significa: curare i figli con amore, lasciandoli liberi di misurarsi con la realtà. Tutto il contrario di come la vedono i cosiddetti «genitori elicottero», sempre presenti, pronti a provvedere ai bisogni dei figli, indipendentemente dalle loro effettive richieste di vedersi risolti i problemi, spesso prima ancora che si presentino. I risultati negativi di questo tipo di attitudine sono stati messi in evidenza da Angela Duckworth, docente di Psicologia all’Università della Pennsylvania, vincitrice della prestigiosa borsa di studio MacArthur, che spiega che quando sono troppo controllati e protetti, i figli diventano degli smidollati. Bisogna lasciare, invece, che imparino a farcela da soli. Soltanto così si può sviluppare la grinta.
In un Ted talk che ha avuto 10 milioni di visualizzazioni, Duckworth ha spiegato che i fattori decisivi per farcela nella vita non sono il quoziente intellettivo, la bellezza né la ricchezza, ma la grinta, la determinazione e la perseveranza. Tutte caratteristiche che non possono essere acquisite in un ambiente iperprotettivo e ansioso come quello che l’Occidente sta creando.
I bambini vanno seguiti con amore e dedizione, ma vanno anche lasciati liberi di esplorare in modo che capiscano quali sono le loro attitudini. È necessario che imparino a risolvere le situazioni difficili da soli, attraverso l’osservazione e il gioco. Per questo in paesi come la Gran Bretagna si stanno diffondendo i «parchi giochi avventura», spazi di terra con ruscelli, capanne abbandonate, copertoni di auto, arbusti, dove i più piccoli possono correre, giocare col fuoco, saltare, costruire, tagliare, sporcarsi. A supervisionarli un’équipe di educatori che resta in disparte senza mai intervenire, eccetto in casi di emergenza. Come ricorda Gopnik, «da genitori dovremmo ricordarci che la finalità dell’amore non è plasmare il destino delle persone che amiamo, ma aiutarle a plasmare il proprio destino. Non è indicare loro la via, ma aiutarle a trovare una propria strada, anche se ne intraprendono una che non avremmo mai scelto né voluto per loro».