Guidati dalla fede

Reportage – Nella diocesi di Lugano sono dieci i preti di origine africana ad essere a capo di una parrocchia
/ 17.09.2018
di Didier Ruef, testo e foto

In una soleggiata domenica di febbraio, Don Darius Bamuene Solo cammina in testa alla processione della festa patronale de La Candelora, che commemora la presentazione di Gesù nel Tempio. Tra le mani stringe una croce d’argento, un microfono per rivolgersi alla folla e un libro di preghiere con l’effige della Vergine. Veste una casula ricamata d’oro.

Don Darius è seguito da una schiera di uomini avvolti in un camice bianco sul quale indossano una cappa di color blu. Sorreggono sulle spalle una pesante lettiga di legno sulla quale si erge una statua della Madonna con Bambino. La folla sfila con solennità, pregando, cantando e compiendo atti di devozione per le strade del nucleo di Pregassona, a Lugano.

L’alta statura e la pelle color ebano fanno spiccare il prete d’origine congolese tra la folla compatta del corteo. Don Darius è uno dei dieci preti africani a capo di una parrocchia della diocesi luganese e in tale veste spetta loro rendere visibile la presenza di Cristo attraverso l’eucarestia, il rito della conciliazione e quello della confessione. E poi c’è il battesimo dei neonati, le visite ai malati, i corsi di catechismo e le numerose sollecitazioni della gente.

Questi preti «importati» sono qualcosa di più dei motori e dei confidenti della loro comunità di fedeli: fanno rivivere parrocchie spesso in stato di abbandono a causa della mancanza di vocazioni in Europa. A titolo di esempio, secondo le statistiche dell’Istituto svizzero di sociologia pastorale, la diocesi di Lugano conta 255 parrocchie, ma soltanto 194 sacerdoti. Questo deficit non è esclusivo del Sud delle Alpi: sul totale delle diocesi cattoliche svizzere, il numero di sacerdoti di parrocchia è passato dai 2877 del 1970 ai 1441 del 2009. L’Africa è l’unico continente dove il numero dei seminaristi – ragazzi e adulti – è in costante aumento.

Nel 1957, Papa Pio XII emanava l’enciclica Fidei donum (Il dono della fede) che invitava le Chiese del Nord della Terra a stabilire relazioni di collaborazione con le Chiese d’Africa. Da allora, ogni anno, numerosi preti africani vengono in missione nei Paesi europei per un certo periodo. Se i missionari europei inviati in Africa dovevano adattarsi al clima e alle mentalità, non fanno eccezione i religiosi neri che oggi vivono in Europa. Il loro gusto dell’avventura non è minore di quello degli europei che attraversavano i mari nei secoli passati.

Don Darius Solo è nato negli anni Settanta in un villaggio della regione di Goma, nell’Est della Repubblica democratica del Congo (RDC). È sempre stato un fervente cattolico. L’esempio di una zia diventata suora l’ha spinto a consacrarsi a Dio. È stato ordinato prete nel 1994 ed è arrivato in Svizzera nel 2000. Ha ottenuto un dottorato alla Facoltà di teologia di Lugano, completato da un’abilitazione all’insegnamento e da un secondo dottorato a Roma. Ha poi seguito una formazione in diritto civile e internazionale della migrazione all’Università di Milano. Oggi insegna alla Facoltà di teologia di Lugano in qualità di docente conferenziere. Tra il 2012 e il 2015 Don Darius è stato curato delle Centovalli e della Val Verzasca, prima di essere trasferito a Pregassona. Nel 2015 ha ottenuto la cittadinanza svizzera grazie alla sua perfetta integrazione e al particolare impegno con i giovani. Ha ricoperto anche la carica di vicario giudiziale, ossia di giudice del tribunale ecclesiastico. È un assiduo sportivo e si allena nella palestra della Migros due o tre volte alla settimana.

Il 20 novembre 1993, il compianto Monsignor Eugenio Corecco, allora vescovo di Lugano, firmava il decreto della Congregazione dell’Educazione cattolica istituendo la Facoltà di Teologia di Lugano (FTL), fondata un anno prima come Istituto di Teologia. Era la prima università del Ticino. Un quarto di secolo dopo, la facoltà ha rilasciato 93 dottorati in teologia, dodici dei quali a preti africani. Ordinato prete dieci anni or sono, il 38enne Don Hervé Solofoarimanana, originario del Madagascar, è un futuro dottorando. Alloggia con altri preti africani ed europei nell’antico convento francescano di Santa Maria di Loreto, a Lugano. Ogni mattina, alla sei e trenta, si ritrovano nella chiesta attigua per celebrare le Laudes, la preghiera mattutina della Liturgia delle Ore, composta delle lodi a Dio per il giorno che inizia. La sera verso le 18.30 si riuniscono poi per i Vespri, che segnano il cambio della giornata liturgica, commemorando la creazione del mondo e celebrandone la bellezza.

Don Hervé è il primogenito di quattro fratelli, tra cui un chirurgo, un ricercatore farmaceutico e un meccanico. Proviene da una cittadina della regione di Manjakandriana, a 150 chilometri dalla capitale Antananarivo. La madre era maestra elementare e il padre professore di matematica. Ferventi credenti, hanno instillato la fede nei figli.

Don Hervé ha frequentato il classico corso di tre anni nel Seminario minore, poi un anno propedeutico e infine otto anni di Seminario maggiore. È stato ordinato sacerdote il 31 agosto 2008, dopo di che è stato per sette anni vicario in piccole parrocchie malgasce e nella capitale, ha insegnato inglese al liceo ed è stato segretario del vescovo di Antananarivo. Don Hervé ama ripetere questa massima che guida il suo lavoro intellettuale e spirituale: «Dio lavora in silenzio, ma con efficacia. Dio ci guida sul cammino della vita». Dal 2015 vive a Lugano, dove alterna i corsi all’università con la redazione della tesi di dottorato che intende completare nel 2020. In seguito, ritornerà nel suo paese, la cui lingua, cultura e umanità gli mancano enormemente. Ogni sera guarda su Internet il notiziario della televisione malgascia. Nel fine settimana, invece, si reca a Uster (ZH), dove officia la messa per la locale comunità italiana. In settimana è spesso chiamato a fare delle sostituzioni nelle chiese del Luganese.

Alla periferia di Lugano, nella scuola elementare di Barbengo, una classe di alunni tra i sette e i dieci anni segue con entusiasmo il corso di storia delle religioni impartito da Don Gérald Chukwudi Ani. Indossando un boubou (la tradizionale tunica africana) ricamata con teste di leone e cappello rosso in testa, sta seduto per terra, con le gambe attorno a un crocefisso alto un metro. Alla sua sinistra c’è un cero pasquale che sarà acceso in occasione delle solenni cerimonie della Vigilia di Pasqua, per celebrare l’attesa della resurrezione di Cristo. A destra, posati su una sedia, ci sono dei ramoscelli d’ulivo che ricordano l’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme tra la folla acclamante che agitava le palme.

La vita di Don Gérald è così ricca che un libro non basterebbe a raccontarla. Nato il 15 dicembre 1973 ad Aqbani nello Stato di Enugu (all’epoca chiamato «Biafra») in Nigeria, è cresciuto in una famiglia animista di 21 fratelli e sorelle, figli di un padre poligamo che divideva la vita con tre mogli e una concubina. Ogni donna aveva una piccola capanna per lei e i suoi figli, mentre l’uomo abitava in una casa al centro di quelle delle mogli. L’appezzamento era circondato da un muro d’argilla. La famiglia contadina era povera e analfabeta e allevava qualche capo di bestiame per sopravvivere. Don Gérald si rammenta della fame che, durante l’infanzia, tormentava lui e i suoi fratelli e sorelle.

Da bambino assisteva il padre che celebrava cerimonie animiste nella foresta, nel corso delle quali alcuni animali venivano immolati agli dei pagani. Nel 1977, a quattro anni, la madre lo aveva mandato da un fratello maggiore nel nord musulmano della Nigeria. Era una bocca di meno da sfamare. Qui impara un’altra lingua ed è obbligato a seguire i precetti dell’Islam. Nel 1979, in seguito a problemi etnici e religiosi, è costretto a fuggire al Sud, ritrova così la sua città, sua madre, la sua lingua Igbo e la sua cultura. Poco tempo dopo muore suo padre e la situazione economica della famiglia precipita. Gérald è costretto ad aiutare la madre con lunghe giornate di lavoro, intervallate da ore di lezione. 

Don Gérald Ani viene battezzato nel 1988 e ottiene la maturità nel 1991. Nel 1992 entra nel Seminario maggiore e prosegue la formazione religiosa. Nel 2003 si reca a Napoli per approfondire la formazione sacerdotale e teologica nel locale istituto dei Gesuiti. Nel 2006 approda alla Facoltà di Teologia di Lugano, dove si laurea nel 2008 e diventa Dottore nel 2014. Ordinato prete nel 2009, questo infaticabile lavoratore sempre sorridente, non si è mai preso un giorno di ferie dall’entrata in seminario. Non smette di costruire ponti verso il prossimo, in particolare tra i giovani. Appassionato di calcio sin dall’infanzia, sarebbe potuto diventare un giocatore professionista, prima che un brutto infortunio lo allontanasse dai terreni da gioco: secondo lui si è trattato di un segno del Signore per spingerlo verso la vocazione religiosa. Oggi organizza tornei misti e si confronta con i giovani delle diverse scuole dove insegna, come fa anche ogni sabato sera dopo la messa, quando li incontra attorno a un tavolo imbandito per parlare della vita, dei loro sogni e dei loro problemi. Crede che sia meglio una chiesa chiassosa con dei giovani che una chiesa semideserta, frequentata solo da anziani.

Secondo lui, la Chiesa sopravviverà se saprà ascoltare i giovani e accoglierli in un ambiente vivace e aperto. Auspica meno formalismo, l’abbandono delle severe tradizioni antiche e l’accoglienza degli altri così come sono fatti. E poco importa se i giovani sono rumorosi o che i bambini giochino durante la messa: meglio una chiesa aperta ed ospitale. Una professione di fede da parte di un uomo di nome Chukwudi, che in lingua Igbo significa «Dio il più grande esiste».