Falsi miti e uomini tutti d’un pezzo

Sport - Nel mondo dello sport c’è chi se la tira... e chi con discrezione si mimetizza fra la gente comune
/ 02.09.2019
di Giancarlo Dionisio

Un pomeriggio di settembre del 1998. A Colonia vanno in scena i Mondiali di canottaggio. Sulle rive del Fühlinger See, non lontano dal cuore della città e dal suo splendido duomo gotico del Trecento, sorge un tendone bianco. È l’improvvisata sala stampa che ospita, in un clima di sana e serena promiscuità, giornalisti e atleti. All’inviato che è stato catapultato lì dal destino, reduce dalla Coppa del Mondo di calcio vinta quell’estate dalla Francia di Zidane, Deschamps, Thuram e compagni, sembra di essere atterrato su un altro pianeta. 

Si è appena conclusa la prova del «quattro senza». Sotto il tendone entra un omone di quasi due metri. Fisico scolpito. Sorriso che spacca. Portamento signorile. Stringe la mano a tutti. Riceve e distribuisce pacche sulle spalle. Non viene attorniato da decine di telecamere, ma tutti tacciono per ascoltare il racconto della sua ennesima impresa. È Steve Redgrave. 

All’epoca ha 36 anni. Nella sua bacheca ci sono già quattro ori olimpici, conquistati in altrettante Edizioni consecutive tra il 1984 e il 1998, e otto Titoli mondiali. A fine carriera saranno nove. Due anni più tardi, a Sydney, dipingerà di oro la sua quinta Olimpiade. Mai nessuno come lui. Membro dell’Ordine dell’Impero britannico nel 1987, Capitano dell’Ordine stesso dieci anni più tardi, Baronetto di sua Maestà la Regina Elisabetta Seconda nel 2001, primo sportivo olimpico a fregiarsi del titolo di «Sir». Ultimo tedoforo alla cerimonia inaugurale dei Giochi londinesi del 2012. 

Passano 18 anni. Quello stesso giornalista, costantemente frenato dai cordoni di protezione attorno alle varie star del calcio, costretto a sgomitare nelle cosiddette zone-miste per carpire due parole in croce ai miti del calcio, frustrato dai vetri fumé, che negli ultimi anni proteggono, sui loro lussuosissimi pullman, i moderni eroi del pedale, si ritrova, ancora una volta, per pura coincidenza, a tu per tu, con quattro altri canottieri eccellenti. 

Ai Giochi di Rio de Janeiro, il «quattro senza» non è più un feudo britannico. Negli ultimi tre anni comanda la Svizzera che mette lì, uno in fila all’altro, tre Mondiali, un Europeo, e l’Oro olimpico in Brasile. Sull’imbarcazione rossocrociata remano, con vigore, coordinazione e tecnica perfetta, i veterani Mario Gyr e Simon Niepmann, classe 1985, Simon Schürch, il più giovane (questione di mesi), e Lucas Tramer, che da poco ha compiuto trent’anni (auguri!). 

I quattro ragazzi hanno dominato la scena recente, riuscendo nel contempo a completare gli studi universitari. Gyr, dal canto suo, ha pure lottato contro una grave malattia. Ciononostante, anche loro, come il gigante Steve Redgrave, non se la tirano, e si concedono con generosità ed empatia, al giornalista che vedono per la prima volta davanti a loro. Che l’uomo, da sempre, abbia bisogno della sacralità dei miti, della loro magica facoltà di narrare le gesta di personaggi invincibili, è risaputo, e comprensibile. Capire invece come e perché si costruiscano i miti nello sport, è un’impresa titanica. 

In realtà, basta poco per accendere la miccia. Un oro olimpico, una maglia iridata, ed ecco che ciclicamente atleti sconosciuti al grande pubblico scalano le prime pagine dei giornali. Personaggi che poi, per mesi, per anni, o per sempre, verranno messi in naftalina. Ricorderete i fratelli Giuseppe e Carmine Abbagnale, possenti canottieri pilotati dal minuscolo timoniere Peppiniello Di Capua. I meno giovani ricorderanno la telecronaca al tritolo di Giampiero Galeazzi, quando ai Giochi di Seul cantò le gesta dei fratelli partenopei, che in quell’occasione misero alle spalle anche l’equipaggio britannico capitanato da Steve Redgrave.

Miti. Eroi. O, se preferite, campioni. Come Valentina Vezzali, Nino Schurter, Federica Pellegrini, Dario Cologna e mille altri. Uomini e donne che hanno scritto pagine esaltanti e commoventi della storia dello sport, ma che hanno l’imperdonabile torto di non giocare a calcio. Persino un ultramito come Roger Federer non riesce ad avere un appeal sufficiente per monopolizzare quotidianamente le pagine e le rubriche specializzate. Nonostante tutto quanto ha vinto, King Roger, al pari di altri fenomeni, come i suoi rivali Rafael Nadal e Novak Djokovic, o come Marcel Hirscher, lo sciatore più vincente della storia, gode di un’esposizione mediatica nettamente inferiore rispetto a quella dei cosiddetti eroi del pallone, dei quali si parla e si scrive tutti i giorni, anche quando non fanno praticamente nulla, se non trotterellare attorno al campo in qualche località montana.

Da circa un mese, siamo prigionieri e vittime delle vicende di Mauro Icardi e della sua moglie-manager Wanda Nara. Dove andrà a finire il tatuatissimo bomber argentino? E la Joya, Paulo Dybala, rimarrà a Torino? Lui vorrebbe, ma Cristiano Ronaldo gradirebbe una coppia o un tridente d’attacco diversi. Che dire di Mario Balotelli? Partito nel 2006 dal Lumezzane, in provincia di Brescia, dopo aver girovagato per mezza Europa, chiude il cerchio per andare a vestire la casacca della squadra del capoluogo. Romelu Lukaku sarà il rimedio contro la sterilità offensiva dell’Inter?

Sono notizione che ti inchiodano allo sgabello del bar: «Cosa ne pensi? Credi? No. È una pippa. Io lo terrei. Che se ne vada. Meglio l’Argentino». In realtà i veri miti dello sport esistono. Ma popolano solo occasionalmente le prime pagine dei giornali e delle TV. Silenziosamente, con discrezione, come Federer, si trincerano dietro le loro mura dorate, oppure, come è il caso dei canottieri, si mimetizzano fra la gente.