Donne che fanno figli da sole

Maternità – Decidere di andare in un centro di fertilità per avere una donazione di liquido seminale non è più un tabù, anche se in Svizzera non è ancora possibile per le single
/ 10.09.2018
di Sara Rossi Guidicelli

«Ho provato così tante volte che hanno iniziato a farmi lo sconto: solo mille franchi per ogni embrione», ride Maria, perché è simpatica, forte, vitale, e perché adesso può posare lo sguardo su suo figlio, che è il regalo della vita più pieno che lei abbia mai ricevuto. Ha un nome greco questo suo bel figlio biologico, che le assomiglia tanto: è di Maria (non è il suo vero nome) e di un donatore di liquido seminale, che la clinica a Creta conosce, ma a cui loro non potranno mai risalire. Il nome, potrebbe essere Ulisse (non è Ulisse), è un omaggio alla terra dove Maria ha potuto rivolgersi per avere un figlio da single; in Svizzera invece la donazione di sperma è riservata alle coppie sposate. Andare all’estero è legale ma molto costoso, in termini di soldi e di investimento emotivo: «Se ti va bene, come a me, ti accompagna un’amica o un genitore, ma non hai vicino tutta la tua cerchia di affetti; ti chiedi perché devi andare così lontano per fare una cosa tanto bella e difficile. Però per me ne è valsa la pena e non ho mai avuto dubbi che sarei andata fino in fondo».

Jolanda (altro nome di fantasia) vive a Madrid e si è lasciata con il suo ragazzo quando aveva 36 anni. Lei voleva figli e lui no; allora quando hanno deciso di separarsi lei ha congelato i suoi ovuli. «So che potrei ancora incontrare l’uomo della mia vita nei prossimi tre, quattro, cinque anni. Allora farò un figlio con lui e chiederò di buttare via gli ovuli congelati; ma so anche che questo potrebbe non succedermi e il mio desiderio di maternità oltrepassa l’idea di coppia, è più forte. Desidero così tanto avere un bambino e so di avere una famiglia vicina che mi aiuterà, che non mi spaventa l’idea di farlo da sola. Ci sono tante donne single che non volevano esserlo ma che alla fine devono tirar su un figlio senza il marito. Non ho nessuna intenzione di prendermi un uomo a caso, usarlo e poi lasciarlo perché non andiamo d’accordo. Cosa potrei spiegare a mio figlio dopo? Che non è nato da un atto d’amore? Che ho visto negli occhi suo padre ma poi non gli ho permesso di vivere sotto lo stesso tetto? Meglio essere chiari: gli dirò che volevo un figlio ma non c’era il papà, allora per fortuna esistono le cliniche con dei semi a disposizione». Jolanda, da quando è single, si è trasferita in un appartamento a Madrid, vicino al centro di salute in cui lavora come medico di famiglia. Sullo stesso pianerottolo vive una ragazza di 43 anni che ha avuto una bambina da sola. Si invitano spesso a bere il caffè e parlano, di tutto ma anche tanto di questo momento storico dove le ragazze sono indipendenti e possono diventare madri senza un padre. «Anche per le coppie non è sempre facile organizzarsi quando nasce un bambino, soprattutto se entrambi lavorano e non ci sono nonni nelle vicinanze. E per la solita questione che tutti pongono sulla figura paterna, la si trova. C’è il nonno, lo zio, il maestro. Nessuno ha tutto, i bambini crescono bene se sono amati e istruiti e in questo di certo non saranno carenti, né il bimbo della mia vicina di casa, né il mio, se mai lo avrò».

Maria un vero fidanzato non lo aveva mai avuto: non di quelli di cui ti fidi al punto da farci insieme una famiglia. Aveva un lavoro a Bellinzona in un’agenzia di sicurezza, era una con la divisa e un carattere deciso. Al compiere dei 40 anni si è detta: ora o mai più. Ha cambiato lavoro, prendendo un posto a metà tempo in una biblioteca, con le vacanze scolastiche. «Era il 2013 e ho iniziato le cure ormonali. Sono andata a Creta perché avevo l’impressione che in quell’Istituto mi avrebbero trattata come una persona e non come un numero. Conosco persone che sono andate in Spagna, in Polonia, in Inghilterra, dove è permesso alle donne sole di beneficiare di una fecondazione assistita, ma le persone con cui ho parlato mi hanno detto che stavano in centri molto grandi e che non avevano un medico di riferimento. Nella mia clinica invece mi sono sentita veramente seguita, e questo era fondamentale, perché ho dovuto passare attraverso tanti insuccessi e con le iniezioni di ormoni in corpo che avevo non era facile restare positivi. Ma il direttore della clinica mi ha detto subito: “Ti giuro che tu avrai un bambino. Te lo giuro, alla fine tu avrai il tuo bambino”».

La prima fase, che dura due mesi, è la stimolazione ovarica per produrre molti più ovuli di quanti non ne produca una donna ogni mese. «Due mesi di gonfiori, umore ballerino e mal di testa», ricorda Maria con un sorriso di tenerezza per quel periodo di cinque anni fa. In giugno è partita in Grecia con un’amica per la seconda fase: l’estrazione degli ovuli. «Ne ho prodotti nove e otto li hanno congelati. Uno hanno provato a fecondarlo in vitro e a impiantarlo nel mio utero. Bisogna aspettare due settimane per vedere se attecchisce, non si può stare né in acqua né al sole. È stata un’attesa durissima e poi non è andata bene. C’era una possibilità del 25%, quindi la prima volta non mi sono depressa, ho solo pensato: devo riprovarci». Nel 2014 è tornata con la sua amica nello stesso istituto e questa volta ha detto: «Impiantatene pure due, se saranno gemelli, me la caverò». Di nuovo non ha funzionato. «Allora ho cominciato a pensare che se non riuscivo a rimanere incinta era perché non sarei stata una brava mamma. Sono andata veramente in crisi. Per fortuna c’era la mia amica con me. Sei mesi dopo sono tornata a Creta, da sola, durante le vacanze di Natale. Non l’ho detto quasi a nessuno, per non dover di nuovo avere la pressione di chi aspetta un esito e ti fa domande. Ho chiesto tre embrioni, per avere più possibilità. Tanto non ci credevo, non mi ero fatta nessuna illusione, provavo per disperazione. E di nuovo, non ha funzionato».

L’ultima volta è stata nel luglio del 2015. Rimanevano solo tre ovuli, Maria aveva 43 anni. «Mi ha accompagnata mio papà. Mia mamma ogni volta sperava che non rimanessi incinta: non le piaceva l’idea che io avessi un bambino da sola. Si preoccupava per me, temeva che non ce l’avrei fatta. Lei stessa mi ha allevata da sola, perché i miei hanno divorziato quando ero piccola. Conosce quella fatica. Ma io pensavo: lei aveva la delusione di essersi separata, io no, ho solo la gioia di costruire una famiglia, piccola, ma una famiglia. Mio papà nel 2015 mi ha detto: “Sento che questa è la volta buona, voglio esserci”. Insieme abbiamo guardato nel monitor il momento della fecondazione. Ci sono dei puntini scintillanti, come stelle, che vengono introdotti nell’utero con una cannula. Era un’emozione fortissima. Ne ho persi due, uno ha resistito. È il mio Ulisse».

Jolanda non è ancora sicura di usare i suoi ovuli, ma intanto li ha congelati, perché più sono giovani più è facile che vengano fecondati «alla prima». «Certo che mi mancherà tutta quella parte romantica di quando sei in coppia e dici: “Adesso togliamo le precauzioni e proviamo a diventare genitori”. Con la fecondazione assistita prendi un appuntamento al telefono, provi con tutti gli ausili della tecnologia e poi dopo vari test ricevi una mail per sapere se sei incinta. Però, a chi mi dice che non è naturale rispondo che ‘naturale’ è sposarsi a 18 anni e prendere i figli quando arrivano. La maggior parte delle coppie oggi aspetta quasi vent’anni da quel momento, poi toglie le precauzioni e spera che arrivi subito. Se non funziona, anche loro si rivolgono a soluzioni che aiutano la natura... no? E poi mi dico: quando si tratta di due vite, la mia e quella del mio bambino, cosa sarà mai il momento del concepimento rispetto a tutto quello che ci aspetta? Per questo penso che un giorno chiuderò gli occhi e sentirò un profumo di pesca, e allora saprò che il momento è arrivato: per me i bambini appena nati hanno la pelle come quella di una pesca».

Durante la gravidanza, difficile, la mamma di Maria è stata molto vicina alla figlia. Quando ha visto Ulisse si è dimenticata tutti i suoi principi. Ora è una nonna molto presente, fondamentale.

«Per fare una cosa così ci vuole pazienza e convinzione», spiega Maria. «Dopo che ho partorito per me è andato tutto in discesa: il bebè era bravo, dormiva e mangiava bene. Io ero attorniata da aiuti. Mi dispiace un po’ per l’idea di famiglia che avrei preferito: papà, mamma e bambini. Ma forse troverò un compagno che ci prenderà tutti e due e verrà a completare il mio sogno. In ogni caso non ne ho “bisogno”, ne ho voglia. Non desidero “un uomo”, ma se mi innamoro desidererò una persona specifica, “lui” e solo lui. Da soli si può, bisogna essere forti e riuscire a godere di questa indipendenza. La gente che conosco ha accettato la mia scelta, nessuno fa commenti dubbiosi, perché vedono quanto stiamo bene; alla festa del papà festeggiamo il nonno e a Ulisse ho sempre detto la verità. Non deve pensare che ha un papà sconosciuto e assente, deve sapere che è frutto d’amore, un amore però solo mio, perché è così che è andata».