È lodevole che si faccia una guerra senza frontiere contro chi bara nello sport, purché la si conduca in modo eticamente irreprensibile. Caster Semenya, questa guerra, l’ha vissuta sulla sua pelle sin dalle prime apparizioni nel grande circuito dell’atletica leggera. Aveva solo 18 anni quando nel 2009 si impose da dominatrice negli 800 metri ai Campionati Mondiali di Berlino. La sua impresa fu però considerata al di sopra delle potenzialità di un essere umano di genere femminile.
I critici dimenticavano tuttavia che il record mondiale sulla distanza, 1’53’’28 apparteneva e appartiene tuttora alla polacca Jarmila Kratochvílová dal lontano 1983. Si tratta del primato più longevo della storia. Ohibò, se sommiamo i dati relativi all’insieme di tutti gli sport, emerge che le prestazioni atletiche dell’essere umano sono in costante miglioramento. Questo perché sono più efficaci le tecniche di allenamento, perché la tecnologia nell’ambito dei materiali e dell’abbigliamento ha fatto passi da gigante, infine perché l’evoluzione naturale della specie ci ha messo del suo, rendendo di conseguenza le classifiche di questi ultimi anni molto più credibili.
Non penso sia un caso che non si siano visti dei progressi proprio nelle discipline in cui anni fa si è potuto andare ben oltre i sospetti e provare che molti non la raccontavano giusta. Erano gli anni Ottanta dei primati strabilianti nel mezzofondo; erano gli anni Novanta delle ascensioni record nel ciclismo; erano periodi in cui il doping strisciante ha varcato i confini della cortina di ferro per invadere in modo indiscriminato il resto del globo. Perché quindi scandalizzarsi per quanto è riuscita a fare la giovane mezzofondista sudafricana, la quale nonostante i progressi della tecnologia, non è riuscita a demolire il record stellare della Kratochvílová?
Semplice: perché le sue fattezze e la sua struttura muscolare, da subito hanno destato il sospetto che fosse poco femminile. Fu più volte sottoposta a dei test dal sapore umiliante. Niente da fare: Caster, pur non essendo la quintessenza della grazia, era ed è una donna a tutti gli effetti. La federazione Mondiale di Atletica Leggera (IAAF) pensò quindi di introdurre un decreto che impedisse di gareggiare alle atlete con un tasso di testosterone (ormone maschile) superiore ai dieci nanomoli per litro di sangue. Si trattava di un valore molto elevato rispetto alla media femminile, e che non modificò di molto la sostanza.
Caster Semenya giunse seconda ai Mondiali di Daegu nel 2011, e ai Giochi Olimpici di Londra nel 2012, entrambe le volte preceduta da Mariya Savinova. La russa cadde tuttavia nella rete dell’antidoping, quindi la mezzofondista sudafricana poté recuperare a posteriori entrambe le medaglie d’oro.
Il suo secondo trionfo olimpico, nel 2016 a Rio de Janeiro, davanti a due altre atlete iperandrogene, Francine Niyonsaba del Burundi, e Margaret Wambui del Kenya, indusse la IAAF, presieduta dall’ex campione britannico Sebastian Coe, a introdurre un nuovo regolamento che imponesse il tetto massimo di testosterone a cinque nanomoli per litro. Il resto è storia attuale. Semenya, sentendosi discriminata, ha inoltrato un ricorso al Tribunale Arbitrale dello Sport (TAS) di Losanna.
Il primo maggio scorso questo organismo giuridico indipendente ha espresso parere negativo. Il nuovo decreto è entrato in vigore l’8 maggio, e a partire da quella data, se Caster Semenya vorrà gareggiare sulle distanze comprese fra i 400 metri e il miglio, dovrà obbligatoriamente sottoporsi a una cura ormonale che la riporti entro i parametri di testosterone stabiliti dalla IAAF. La sentenza ha fatto e farà molto discutere. Alcune atlete di ieri e di oggi, come le tenniste statunitensi Billie Jean King e Serena Williams, hanno espresso la loro solidarietà con Caster.
Da più parti si sostiene che, sia il regolamento proposto dalla IAAF, sia la sentenza del TAS, sono eticamente discutibili. Sebastian Coe continua a tuonare che lui vuole che scendano in pista atlete in grado di affrontarsi ad armi pari. Sorge quindi spontaneo chiedersi perché non si sia mai pensato di escludere, dalle corse sui 100 e sui 200 metri, gli atleti afroamericani, i quali, lo confermano parecchi studi, dispongono di fibre muscolari più veloci ed esplosive rispetto agli asiatici e agli indoeuropei. Oppure, invece di escluderli, li si potrebbe costringere a sottoporsi a un trattamento chimico che riduca la loro reattività. Di esempi, assurdi e inaccettabili come questo, ne potremmo proporre a decine. Il problema, apparentemente così complesso e intricato, è riconducibile, secondo noi, ad un’unica soluzione praticabile. O si riesce a provare che il livello elevato di testosterone nel sangue di Caster Semenya è frutto di pratiche dopanti – e allora via, fuori subito, per 2, 4, 8 anni, o per sempre – oppure si deve accettare che lei è fatta così e la si lasci in pace.
Suona infatti molto strano che chi lotta contro il doping farmacologico obblighi una donna a snaturare se stessa imbottendosi di medicinali i cui effetti collaterali potrebbero essere nefasti. All’atleta l’ultima parola: «Vorrei poter correre in modo naturale, così come sono nata. Sono Caster Semenya, sono una donna e sono veloce».