Dei delitti e delle pene

Sport - La giustizia sportiva, complessa, segmentata, a volte lenta, rischia di indebolire la credibilità dello sport
/ 15.10.2018
di Giancarlo Dionisio

Ama! Non è un’esortazione a voler bene al prossimo. È l’acronimo di Agenzia Mondiale Antidoping (Wada in inglese), l’organizzazione che gestisce il programma di prevenzione, controllo e sanzione in materia di frode sportiva farmacologica e tecnologica. Sotto di lei si pongono le varie Agenzie Antidoping Nazionali, che non necessariamente adottano gli stessi principi giuridici. Anche il Comitato Internazionale Olimpico (Cio) si occupa di argomenti analoghi con i suoi organi specifici. Il Cio governa a sua volta i vari Comitati Nazionali; nel nostro caso: Swiss Olympic. Non dimentichiamo poi le varie Federazioni Internazionali, come la Fifa, la Fis, L’Uci, o la Iaaf, le quali reggono le sorti di quelle Nazionali, che in Svizzera si chiamano Asf, Swissski, Swisscycling, Swissathletics, e che pure posseggono i loro organi giudiziari. 

Insomma, a dipendenza delle circostanze, l’infrazione di un atleta può essere giudicata da parte di una o più fra queste istanze. Al di sopra di tutte si colloca infine il Tas (Tribunale Arbitrale dello Sport) con sede a Losanna, voluto dal Cio nel 1984, dal 2003 organo indipendente, chiamato a risolvere le controversie transnazionali. Sovente il Tas ha ribaltato sentenze prese in altre sedi. Atto assolutamente lecito, ma che deve far riflettere sulla, a mio modo di vedere, eccessiva parcellizzazione della giustizia sportiva. Se una decisione non ottiene l’unanimità dei consensi, è probabile che qualcosa non sia girato per il verso giusto in sede d’inchiesta, oppure che ci sia ancora troppa diversità fra i codici delle varie camere giudicanti e, in ultima analisi, si potrebbe persino ipotizzare che la mancata unità di visione e di intenti possa nascondere ragioni meramente politiche: ad esempio, ciò che è grave per Tizio nel paese X, è considerato da Caio come una bagattella non punibile nel paese Y, mentre sul suolo di Z, Sempronio si batterebbe per la radiazione a vita. 

Emblematico il caso dei fondisti russi (Legkov, Vylegzhanin, Petukhov e altri), ritenuti colpevoli di essere coinvolti in un programma di doping di Stato nel periodo precedente i Giochi Olimpici di Sochi del 2014. Questi atleti sono stati condannati, assolti, ricondannati, nuovamente assolti, considerati, al tempo stesso, colpevoli dal Cio, innocenti dalla Fis. Uno scenario delirante che, oltre a minare l’autostima degli interessati, ha contribuito alla perdita di credibilità del mondo dello sport. 

Lo spunto per parlare di giustizia sportiva mi viene da alcune considerazioni colte recentemente sui social media, che, oltre ad avere in parte sostituito i bar, nel ruolo di «Università dello sport», si pongono come dei formidabili acceleratori dell’informazione. Pochi istanti dopo il trionfo di Alejandro Valverde al Campionato Mondiale di ciclismo (Innsbruck, 30 settembre), si è potuto assistere al tripudio di chi si rallegrava per l’impresa del corridore di Murcia, finalmente Campione iridato, a 38 anni e mezzo, dopo essere salito per ben sei volte sugli altri gradini del podio. D’altro canto c’era chi (una minoranza) riteneva indegno celebrare le gesta di un ex dopato. È vero. Alejandro Valverde fa parte di quella cinquantina di corridori che nel 2006 era stata coinvolta nell’Operacion Puerto, un programma di doping ematico gestito dal ginecologo (sic) Eufemiano Fuentes, nel suo studio di Calle Zurbano a Madrid. Stranamente i nomi di atleti, provenienti da altre discipline, più potenti e più ricche, sparirono dalle liste in un nanosecondo. L’inchiesta provò che alcune delle sacche di sangue, stoccate nei refrigeranti del medico per essere, all’occorrenza, reintrodotte in circolo, appartenevano effettivamente al neo campione del mondo. Spiegarne le ragioni richiederebbe troppo spazio, ma va detto che Valverde fu indagato, processato e sospeso per due anni dagli organi giudiziari del Coni (Comitato Olimpico Nazionale Italiano), mentre la giustizia spagnola continuò a fare orecchio da mercante e a consentire al corridore la partecipazione alle gare su suolo iberico. Un approccio schizofrenico alla situazione, che, secondo me, ha nuociuto all’immagine di Valverde. Di fatto lui ha pagato il prezzo che gli è stato richiesto. È tornato alle gare, motivato, arrabbiato, forse in cuor suo convinto di essere stato vittima di un errore giudiziario, disposto a lavorare e a soffrire ancora più duramente di prima. I risultati, ottenuti nell’ambito di un ciclismo iper controllato e ripulito, non si sono fatti attendere poiché se c’è una qualità che non fa difetto a colui che viene soprannominato «l’embatido», è la classe cristallina.

Valverde, diversamente, ad esempio, di Marco Pantani, è riuscito a non farsi stritolare dagli ingranaggi di una giustizia sportiva ancora troppo balbettante (vedi la vicenda di Chris Froome) ed è tornato più grande che mai. Qualcuno, a giusta ragione, dirà che in fondo lo sport è semplicemente lo specchio della società civile, in cui pure si manifestano discrepanze giudiziarie tra situazioni simili. Questo, però, non deve servire da alibi. Tendere a una maggiore omogeneità di giudizio, con regole e codici uguali per ogni disciplina, federazione, paese, è una via imprescindibile se si vuole che lo sport , oltre a essere uno straordinario dispensatore di motivazione e di emozioni, sia un ambito considerato eticamente credibile da parte del pubblico.