Forse è il sintomo di un mondo che ci ha ormai abituati a pretendere di avere il controllo su tutto in nome dell’autodeterminazione, oppure, come giustamente sosteneva il sociologo Zygmunt Bauman, a dare per scontata la libertà di potere cambiare in qualsiasi momento il corso delle nostre vite. E con esso di conseguenza anche quello delle nostre morti.
La gestione della fase terminale della vita da parte del detentore della stessa, ha un nome preciso, derivante dal greco, eutanasia, che significa «bella morte». Oggi per «eutanasia» intendiamo l’atto di porre fine – in modo attivo o passivo – da parte di terzi alla vita di una persona afflitta da sofferenze per lei insopportabili. Proprio per questa presenza di terzi, spesso si parla anche di suicidio assistito.
Le cifre dell’Ufficio federale di statistica parlano chiaro riguardo all’eutanasia passiva (l’unica permessa in Svizzera): dal 2008 al 2014 l’aumento del numero delle persone che sono ricorse a questa modalità di decesso (morendo dunque per una causa diversa dalla sofferenza che impedisce di avere una prospettiva) sono aumentate costantemente; se nel 2008 erano poco più di 100, nel 2014 (rilevamento più recente) erano 742. Anche sul tipo di disagio registrato le statistiche sono eloquenti, se la parte del leone è rappresentata dalle persone colpite da cancro, malattie neurodegenerative o cardiocircolatorie, fra chi ricorre al suicidio assistito vi sono anche persone affette da depressione o perdita della vista.
Nel codice penale svizzero un unico articolo è dedicato alla regolamentazione di una procedura senza dubbio estremamente delicata poiché coinvolge ambiti (emotivo-filosofici-religiosi): nell’Art. 115, dedicato all’Istigazione e all’aiuto al suicidio, si dichiara che «Chiunque per motivi egoistici istiga qualcuno al suicidio o gli presta aiuto è punito, se il suicidio è stato consumato o tentato, con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria».
Probabilmente proprio l’assenza di una regolamentazione più circoscritta ha contribuito negli anni a spingere organizzazioni e privati a operare in un campo d’azione pieno di ambiguità e zone d’ombra che alcuni attori non hanno lesinato a sfruttare, basti pensare allo scandalo di qualche anno fa sorto attorno all’associazione svizzero tedesca Dignitas o, in tempi più recenti, all’apertura reiterata di centri di suicidio assistito alle nostre latitudini, soprattutto per fornire un servizio alla vicina Italia, che condanna fermamente la pratica.
Sebbene si tratti di un fenomeno che in Ticino, come dimostrano sempre le statistiche, è ancora assai contenuto, non va sottovalutato, poiché per le cause citate all’inizio, ma anche in seguito a un invecchiamento della popolazione che riguarda tutti i paesi occidentali, sarà sempre più presente e oggetto di discussione e dibattito.
Diversa a questo riguardo è la situazione nel Benelux dove, senza entrare nei dettagli, poiché ci sono tra Belgio, Olanda e Lussenburgo alcune differenze fondamentali, è contemplata l’eutanasia attiva (che a differenza di quella passiva prevede una somministrazione di un cocktail letale da parte di terzi, preferibilmente identificabili nella figura del medico) perfino per i minori. Poiché, appunto, la popolazione diventa sempre più vecchia e lo spettro di malattie mentali degenerative come la demenza senile o l’Alzheimer è ormai entrato nella quotidianità, sempre più persone si appellano alla possibilità delle direttive anticipate che contemplano l’eutanasia attiva. Grazie ad esse è possibile stabilire formalmente le modalità del proprio decesso qualora dovesse subentrare una malattia di natura fisica o mentale.
Come osservato da più parti, e soprattutto dalle voci più critiche, sono diversi i rischi e le incognite legati a questa modalità testamentaria: se una persona ha una malattia mentale degenerativa, chi decide quando intervenire? E davvero le volontà di una persona ammalata e non più in grado di intendere e di volere sono da considerarsi sovrapponibili a quelle di una persona sana e in completo possesso delle proprie facoltà mentali?
Saranno questi i temi che affronterà il belga Chris Gastmans (Professore di etica medica e responsabile del centro di etica biomedica e diritto alla Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica di Lovanio, Belgio), fra i massimi esperti mondiali in materia, nel corso di una lectio magistralis pubblica organizzata dal Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale della SUPSI lunedì 14 gennaio. Gastmans da molti anni si occupa delle problematiche legate alla scelta di ricorrere all’eutanasia, poiché come si afferma in Euthanasia and Assisted Suicide: Lessons from Belgium (edit. David Albert Jones, Chris Gastmans e Calum MacKellar) «l’unico modo per evitare le conseguenze [negative dell’eutanasia] è di resistere alla tentazione della legalizzazione dell’eutanasia o del suicidio assistito, investendo piuttosto sia nelle cure palliative sia nella ricerca sulle pratiche del fine vita, mettendo così in evidenza la preziosità di ogni singola vita umana».
L’importanza del contesto emotivo di ogni paziente
In vista dell’incontro pubblico con Chris Gastmans alla SUPSI, gli abbiamo parlato in modo da riuscire a individuare i principali temi di cui si occuperà nel corso del suo importante intervento.
Professor Gastmans, è possibile tracciare un identikit delle persone anziane che ricorrono alle direttive anticipate contemplando anche l’eutanasia attiva?
Sì, le ritroviamo soprattutto tra le persone anziane single, non aderenti a una fede specifica, che non si fidano del proprio medico, nel senso che non credono che questi terrà conto delle loro volontà riguardo al fine vita, ma anche persone anziane che soffrono di una condizione patologica cronica o che vivono limitazioni funzionali.
Quali sono i timori principali che spingono una persona a stilare delle direttive anticipate che contemplano l’eutanasia?
Vi sono la paura di dovere dipendere da qualcuno, la paura della perdita di dignità e la paura di diventare un fardello per gli altri.
Come si evince dalle sue Lezioni dal Belgio, lei nutre dei dubbi importanti riguardo all’adeguatezza delle direttive anticipate che considerano l’eutanasia, poiché vi individua tutta una serie di problemi. Ce li potrebbe elencare?
Il primo problema è legato all’interpretazione delle volontà della o del paziente. Le volontà di un paziente non possono essere considerate un dato assoluto i cui contenuti sono deducibili da una direttiva anticipata e in grado di chiarire a tutti gli attori coinvolti cosa si debba fare per il paziente durante tutte le fasi di assistenza. Vi è poi il problema di determinare il momento esatto in cui praticare l’eutanasia. Prendiamo ad esempio una persona che di fronte a una diagnosi di demenza decide di volere l’eutanasia nel momento in cui non sarà più in grado di riconoscere il proprio figlio. Quali sono i criteri di riconoscimento? In fondo vi sono molti modi di riconoscere una persona, dove tracciare allora la linea di demarcazione?
Da ultimo, ma non per importanza, vi è la questione delle previsioni future. Mi spiego, le preferenze e i valori di una persona possono cambiare nel corso del tempo. E le persone affette da demenza non hanno assolutamente modo di riconsiderare le decisioni prese nelle direttive anticipate. Se ad esempio nel momento dell’eutanasia la persona dovesse opporre resistenza cosa si deve fare?
Secondo lei quali sarebbero allora i fattori da tenere in considerazione se si desidera un approccio orientato alla cura? La ricerca di ciò che è meglio per il paziente non dovrebbe tenere in considerazione unicamente le volontà del paziente come se si trattasse di un individuo isolato, ma si dovrebbe sempre cominciare con l’ascolto delle preoccupazioni espresse dal paziente, dai suoi parenti, dal personale di cura ecc, poiché tutti quanti costituiscono il ricco contesto emotivo all’interno del quale la cura della persona deve prendere forma